Basta una goccia di sangue e in 10 minuti si può sapere se si è infetti o meno del nuovo virus.

 

Una puntura sul dito, uno stick per esaminare il piccolo campione di sangue intero e in 10 minuti si ha la risposta al dubbio di essere stati infettati dal virus Covid-19. Un auto-test per il Coronavirus che potrebbe tranquillizzare. Misura gli anticorpi IgG e IgM specifici per il virus che sta mettendo in ginocchio il colosso cinese. Lo ha messo a punto un’azienda biotech della Svizzera italiana, la Prima Lab, e negli esperimenti ha dimostrato specificità e precisione tra il 95 e il 99%, in base ai due tipi di anticorpi.

Può essere fatto autonomamente, ma è meglio per evitare eventuali diffusioni del contagio che sia personale sanitario a praticarlo. Comunque, se l’Organizzazione mondiale della Salute lo dovesse prendere in considerazione per molti Paesi con una carente organizzazione sanitaria potrebbe rappresentare una svolta. E in Italia potrebbe essere messo a disposizione di ogni ospedale, ambulatori, medici di medicina generale, ambulanze.

Al momento comunque l’aspetto diagnostico è tecnicamente semplice e relativamente costoso: basta fare un tampone. Ma la risposta può impiegare anche un paio di giorni, 24 ore se risulta positivo, ma c’è il fatto che deve andare nei laboratori indicati per l’emergenza, il Sacco a Milano e lo Spallanzani a Roma. In questi giorni è il laboratorio del Sacco, che si occupa del Nord Italia, a essere sotto pressione. Al ritmo di 3000-5000 tamponi al giorno. Secondo le stime andrebbero controllate almeno 50 mila abitanti in queste zone. Fino a pochi giorni fa si faceva solo in caso di sospetto in persone rientrate dalla Cina. Adesso, a 230 casi confermati e sei morti (numeri del 24 febbraio) in Italia, e con casi autoctoni, non più solo di importazione, il sospetto va di conseguenza allargato a tutti i soggetti anche italiani che abbiano una polmonite sospetta. Questo rende il numero di tamponi da fare maggiore e la situazione più complicata.

Da burnout medico, anzi da laboratorio. E il burnout fa perdere anche del tempo per evitare errori. D’altra parte tutto ciò è positivo, perché tra i motivi per cui l’Italia è balzata ai vertici mondiali (terza) per la diffusione del Coronavirus Covid-19 c’è anche proprio il fatto che da quando si è individuato il primo caso in Lombardia vengono effettuati i test su ogni caso minimamente sospetto. E questo in Europa lo sta facendo solo l’Italia. Per esempio, quanti casi emergerebbero in Germania o in Francia se si facessero test come li sta facendo l’Italia? Ed è questa la garanzia che si sta facendo il massimo per un’efficace strategia di contenimento del contagio, all’inizio sfuggito. Ovviamente con il tampone non si può fare un’autodiagnosi, occorre il personale specializzato e sempre ben protetto. Ecco perchè un test rapido da una goccia di sangue intero rappresenterebbe una svolta nell’organizzazione e nei tempi di risposta.

Praticamente immediati. I kit usa e getta per il Fingerstick Whole Blood sono già pronti. L’azienda produttrice però avverte che per precauzione è comunque meglio praticarlo, anche se molto semplice, con camici, guanti, mascherina e occhiali protettivi. Insomma, meglio che per ora sia un operatore sanitario a praticarlo. Non è consigliato per le persone che assumono farmaci anti-coagulanti (fluidificanti del sangue) o per le persone che soffrono di emofilia. In questi casi, il tampone evita ogni rischio.

Il test è stato messo a punto grazie alle autorità sanitarie cinesi che hanno pubblicato l’intero genoma del cosiddetto “nuovo coronavirus 2019” o “Covid-2019” nel database delle sequenze genetiche degli Istituti nazionali della sanità (NIH) e nel portale Global Initiative on Sharing All Influenza Data (GISAID). I coronavirus sono una grande famiglia di virus, alcuni dei quali causano malattie nelle persone e altri che circolano tra gli animali, tra cui cammelli, gatti e pipistrelli. Raramente, i coronavirus animali possono evolvere e infettare le persone e poi diffondersi tra persone come è stato visto con MERS e SARS. Le epidemie passate di MERS e SARS sono state complesse e hanno richiesto risposte sanitarie complete.

A proposito di diagnosi, come si è arrivati al 38enne di Codogno? «È stato un colpo di fortuna intercettarlo. Senza quella prima diagnosi forse i casi si sarebbero moltiplicati ancora in modo silenzioso», dice Pier Luigi Lopalco, epidemiologo dell’Università di Pisa convinto che i pazienti zero non si trovino più perché il virus partito dalla Cina è arrivato in Italia già da tempo.

«Evidentemente ha circolato silenziosamente già da gennaio. Se i malati si sono rivolti al sistema sanitario si è pensato che fossero stati colpiti dall’influenza, oppure avevano sintomi così lievi che nemmeno sono andati dal dottore. I pazienti che vediamo adesso potrebbero appartenere alla seconda o terza generazione dei contagiati». Se non stanno più male, o se non hanno mai avuto problemi, i casi zero sono davvero difficili da individuare. Tanto più che il numero dei malati sta salendo e le indagini epidemiologiche sui loro contatti diventano sempre più difficili.

I focolai sono destinati a crescere? «Si, la speranza però è di spegnerli prima possibile e mi sembra siano state prese misure importanti e velocemente. Se poi i casi non si arresteranno bisogna tirare fuori i piani pandemici che già esistevano. Riguardano ad esempio la gestione degli ospedali per affrontare un gran numero di pazienti. Una cosa tra l’altro è gestire i malati come hanno fatto i cinesi, senza rete, un’altra è seguire la linea adottata qui sin da subito, quella di percorsi specifici per i pazienti del coronavirus. Isolarli anche in ambiente sanitario è fondamentale».

E l’infettivologo Massimo Andreoni vuole rafforzare un concetto chiave: “La diagnosi precoce è importante. Trovare un malato subito ferma la trasmissione”. Andreoni è docente di malattie infettive dell’università di Tor Vergata, a Roma. Ma la diagnosi precoce è utile alla cura? «È più importante in termini epidemiologici che per la cura. Se si trova presto il malato si impedisce che trasmetta ad altri. Ai fini della terapia però modifica molto il quadro, perché non ci sono farmaci che blocchino lo sviluppo della malattia da parte degli infetti». I casi stanno aumentando, quanti ce ne sono non diagnosticati? Risponde Andreoni: «I dati sul coronavirus fanno vedere che probabilmente esistono molte infezioni asintomatiche o con pochi sintomi, più di quelle che possiamo pensare. Il virus circola molto di più e noi iniziamo a vedere molti contagiati perché facciamo tanti tamponi». Come si affronta questo coronavirus?

«Ci sono due temi per il clinico. L’aspetto diagnostico e quello del trattamento e della cura. In questo momento non ci sono farmaci specifici per combatterlo. Alcuni farmaci hanno dimostrato un certo grado di attività sia in vitro che nell’esperienza in vivo, non nei trial clinici. Si possono usare in questo momento nei casi più gravi. Per il resto si fanno terapie di sostegno contro i sintomi, nei casi più gravi si arriva alla ventilazione artificiale».

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