La chiave che apre la porta di altri misteri.

 

L’uomo di oggi nasce dallo stesso processo di addomesticazione degli animali. Una scoperta italo-spagnola che apre riflessioni rispetto all’evoluzione. O meglio potrebbe cambiare le prospettive dell’evoluzione. E forse, ma è un’idea del tutto personale, aprire un nuovo dibattito tra libero arbitrio, genetica ed epigenetica. Più semplicemente chi ha addomesticato l’uomo lasciandogli, in chiave evolutiva, una ormai chiara libertà di scelta?

Un passo indietro. Tutto parte dallo studio di due malattie genetiche, varianti della sindrome di Williams-Beuren. La sindrome di Williams-Beuren (nota anche come sindrome di Williams) è una malattia genetica che colpisce i bambini e si manifesta con una percentuale di uno su 20.000 nati vivi. In Italia sono stati riscontrati circa 3.000 casi di soggetti colpiti da questo tipo di patologia. I sintomi della malattia sono riconoscibili perché si evidenzia una stenosi aortica sopravalvolare, un restringimento del lume dell’aorta in prossimità della sua origine, causata da un deficit di elastina e arrecante un aspetto particolare del volto del paziente (Facies Elfica) che presenta dei tratti grossolani, con palpebre edematose, dorso nasale depresso e narici antiverse, bocca larga con labbra carnose, guance paffute con la presenza di una mandibola piccola. Quindi la forma del volto è sintomo della malattia che ha origine genetica.

Inoltre, i bambini Williams presentano problemi nello sviluppo mentale che sono associati ad un carattere estremamente socievole ed estroverso anche con gli estranei (si tratta della personalità definita “cocktail party”), problemi relativi al ritardo di crescita e relativi, altresì, ad un invecchiamento che viene definito precoce. I bambini colpiti da questa sindrome possono presentare problemi ai reni, alla vista, ai denti, tendenza all’ipertensione e presentano una dissociazione tra gli aspetti pragmatici, gli aspetti fonologici e sintattici del linguaggio.

I bambini colpiti da questo tipo di patologia iniziano a parlare in ritardo rispetto ai bambini sani, infatti i piccoli pazienti iniziano a formare le prime frasi attorno ai 3 anni mentre il linguaggio migliora partendo dai 4-5 anni. Manifestano anche ipersensibilità ai rumori (iperacusia), evidenti difficoltà a prendere sonno, difficoltà motorie che possono influire sul ritardo a muovere i primi passi (camminare). In positivo, oltre alla simpatia e all’estroversione, presentano una straordinaria abilità musicale e un senso spiccato del ritmo.

Presentata la sindrome, per ora incurabile, dimentichiamola ai fini di questo articolo perché dallo studio dei geni coinvolti i ricercatori hanno scoperto qualcosa in grado di catturare l’eco della nostra storia lontana per parlarci dell’evoluzione della condizione umana. A parlare loro è stato il nostro volto.

Un gruppo di ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) e dell’Università Statale di Milano, guidato da Giuseppe Testa, direttore del Laboratorio di Epigenetica delle Cellule Staminali IEO, docente di Biologia molecolare all’Università di Milano e direttore del centro di Neurogenomica dello Human Technopole, ha aperto una nuova prospettiva sull’evoluzione umana, grazie alla scoperta del gene architetto dei tratti del nostro viso di uomini moderni e dei nostri comportamenti pro-sociali. La ricerca è stata pubblicata lo scorso 4 dicembre sulla prestigiosa rivista scientifica Sciences Advances. Lo studio è stato realizzato in collaborazione con le Università di Barcellona, Cantabria, Colonia e Heildelberg, e l’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo.

 

“Insieme al gruppo di Cedrix Boeckx di Barcellona – dichiara Testa – abbiamo fornito la prima dimostrazione scientifica della cosiddetta “human self-domestication”: un’idea affascinante che, da radici che risalgono fino a Joahannes Blumenbach e Charles Darwin, era arrivata a ipotizzare che l’evoluzione di noi uomini moderni, rispetto agli umani arcaici tipo Neanderthal, contemplasse un processo simile a quello dell’addomesticazione degli animali.

Noi presentiamo infatti caratteristiche del volto e del comportamento che ricordano quelle che distinguono appunto le specie addomesticate da quelle selvagge (e che assieme delineano appunto la cosiddetta ‘sindrome da addomesticazione’). In sostanza, il processo di self-domestication coinciderebbe con l’emergere dell’essere umano che oggi anatomicamente conosciamo”.

Di questa ipotesi era mancata finora la prova sperimentale, prova fornita ora grazie allo studio delle cellule staminali di una coppia di malattie genetiche (varianti della sindrome di Williams-Beuren), in cui tanto il viso che le caratteristiche cognitivo-comportamentali presentano aspetti tipici del processo di addomesticazione, come per esempio la faccia più piccola e le ridotte reazioni aggressive.

Ricostruendo in vitro il tipo cellulare, la cosiddetta cresta neurale, che durante l’embriogenesi va a formare la faccia, il team italo-spagnolo ha scoperto che uno dei geni alla base di queste malattie, BAZ1B, è stato l’architetto del nostro volto moderno “perché regola, come un direttore d’orchestra – spiega Testa -, l’attività di decine e decine di geni responsabili delle fattezze del volto o di atteggiamenti di socialità”.  E aggiunge: “Ci siamo arrivati confrontando i nostri dati sperimentali con le analisi paleogenetiche degli uomini arcaici. In pratica i circuiti molecolari che siamo stati in grado di analizzare nella cresta neurale dei pazienti Willimas-Beuren hanno fatto ‘parlare’ per la prima volta il DNA dei nostri antenati arcaici, dando senso alle varianti genetiche che li distinguono da noi e che erano restate ‘silenti’, cioè funzionalmente indefinite, fino a che, appunto, non siamo riusciti ad associarle al controllo esercitato da questo gene così speciale. Le malattie genetiche, per la prima volta a livello sperimentale, sono state in grado di catturare l’eco della nostra storia lontana per parlarci dell’evoluzione della condizione umana, svelando come le basi molecolari del nostro viso siano state modellate da un gene, già noto per i suoi ruoli anche nell’oncogenesi”. Nella genesi dei tumori. Un gene chiave, nascosto dal tempo ma svelato perché attivo in queste due rare varianti della sindrome di Williams-Beuren.

“L’ipotesi della self-domestication nell’uomo – spiegano i co-autori del lavoro Alessandro Vitriolo e Matteo Zanella, ricercatori del Laboratorio di Epigenetica delle Cellule Staminali IEO e del Dipartimento di Ematoncologia dell’Università di Milano – non aveva fino ad ora potuto avere la sua dimostrazione empirica perché non riuscivamo a capire i meccanismi genetici ed evolutivi all’origine dell’addomesticazione, e inoltre non esistevano sistemi sperimentali adeguati per testare questi meccanismi nell’uomo. Noi abbiamo superato questa barriera partendo dalla teoria, emersa di recente, che la base d’origine dell’addomesticazione sia costituita da lievi deficit della cresta neurale. Su questo presupposto concettuale abbiamo potuto costruire l’ipotesi sperimentalmente testabile che nelle specie addomesticate esista un‘alterazione nell’espressione dei geni della cresta neurale, che invece non esiste negli antenati selvaggi. Per gli esseri umani, non disponendo dei dati di espressione genica degli ominidi, abbiamo verificato la nostra ipotesi confrontando le variazioni genetiche fra uomini moderni e arcaici tramite le reti di regolazione dei geni presenti appunto in specifiche malattie genetiche che presentano deficit della cresta neurale. Abbiamo così dimostrato che specifici disturbi dello sviluppo neuronale umano, che causano gli stessi tratti craniofacciali e comportamentali dell’addomesticazione, possono far luce sui circuiti genici che modellano il viso umano moderno e dunque possono essere utilizzati per una valida dimostrazione scientifica dell’ipotesi della self-domestication”.

Quindi come esiste una differenza della facies e del carattere (aggressività verso socievolezza) del cane, del gatto, della mucca eccetera dalla condizione selvatica a quella addomesticata, così esiste nel passaggio dall’uomo di Neanderthal all’uomo Sapiens. Ma qui si pone una domanda: se gli animali sono stati addomesticati dall’uomo, l’uomo da chi è stato addomesticato? Da sé stesso ipotizzano i ricercatori. Ma qui si potrebbe introdurre una chiave di lettura diversa in base alle diverse chiavi di lettura: religiose od evoluzionistiche. Dio o la Natura. E, perché no, anche da scelte personali che, come è recente acquisizione, grazie all’epigenetica possono attivare, disattivare, adattare il nostro patrimonio genetico. L’ambiente in senso lato, dal micro al macro, influenza nel tempo le nostre espressioni genetiche. Nel breve tempo di una vita ma anche nel lunghissimo tempo di molte generazioni. Ciò che si mangia, come si mangia, l’attività fisica, i mutamenti sociali, tecnologici e strutturali (una banalità, ma giusto per rendere l’idea, l’uomo pre frigorifero, aria condizionata e riscaldamento e quello post).

E c’è anche un risvolto di autonomia, di libertà di scelta, di libero arbitrio. Riconosciuto dalla religione e dalla scienza. Quanto ha influenzato il percorso dell’uomo nella sua evoluzione lo scegliere tra il bene e il male, rispettare le regole (spesso igienico alimentari) divine o il non rispettarle, il passaggio da società nomade a società stanziale, dall’essere cacciatore a essere agricoltore. L’ambiente quindi ha addomesticato l’uomo? O l’uomo è convinto di aver lui addomesticato tutto ciò che lo circonda? E quanto gli stili di vita lungo le generazioni hanno influenzato le nostre espressioni genetiche? Volti diversi e caratteri diversi tra i buoni e i cattivi. Non vorrei richiamare in causa la fisiognomica di Cesare Lombroso, ma forse qualcosa da considerare c’è. Di certo quando si fanno queste scoperte spesso non si hanno risposte ma si aprono una miriade di altre domande su quanto ancora c’è di nascosto nella storia dei nostri geni, dell’evoluzione e nei misteri che passo dopo passo la scienza cera di svelare.

“Il nostro studio – conclude Testa – è destinato ad avere un forte impatto sulla nostra concezione dell’uomo e della sua evoluzione, non solo perché fornisce la dimostrazione empirica a un’idea così fondativa della nostra condizione moderna, ma anche perché definisce un vero e proprio nuovo campo di studio, in cui specifiche malattie genetiche, grazie alla possibilità di comprenderle in vitro attraverso degli avatar cellulari  dei pazienti, illuminano la storia che ci ha condotto fin qui e che tutti ci accomuna”.

 

Titolo dello studio: Dosage Analysis of the 7q11.23 Williams region identifies BAZ1B as a major human gene patterning the modern human face and underlying self-domestication. È consultabile al link http://advances.sciencemag.org/

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *