Una buona informazione si basa innanzitutto sulla professionalità di chi scrive e divulga le notizie.

 

 

Tutti possono scrivere sui social, tutti possono leggere ciò che più aggrada, condividere, criticare (con argomenti e amichevolmente). Siamo in piazza, in bar dello sport o in una sala da tè, dal barbiere o dal parrucchiere… tutto virtuale, a distanza, ma reale anche se si usano falsi nomi e false immagini. Ma… C’è un ma pesante. A tutti andrebbero riconosciute competenze e professionalità, limiti e passioni, cultura e ignoranza.

E ognuno deve fare il suo lavoro. La comunicazione, l’informazione, la divulgazione prevedono una scuola, sul campo meglio che teorica, e delle regole che devono essere rispettate. Prima di tutto etiche poi professionali: occorre saper leggere le notizie, scovarle, verificarle, renderle comprensibili, attirare l’attenzione con le parole usate evitando però il rischio di querele e non offendendo la sensibilità di chi si cita e dei lettori.

Questa è scuola, questo un tempo faceva la differenza per salvare il posto di lavoro o perderlo. E le notizie, tutte, devono sempre colmare dei vuoti rispondendo a cinque domande chiave: chi? che cosa? quando? dove? perché? Il tutto nel rispetto della verità. Il più possibile perché un giornalista dovrebbe mettere da parte ogni opinione personale. Restare il più possibile asettico, Ecco perché i giornali politici non hanno mai avuto molta fortuna. Così era e così dovrebbe essere, dai media ufficiali ai social.

Oggi però si tende a lasciare la comunicazione e l’informazione a chi dovrebbe occuparsi di altro. Il risultato? Tendiamo a dare credito a chi lo merita da una parte e non da un’altra. Faccio solo un esempio, che riguarda la mia specializzazione giornalistica: quando faccio parlare medici e scienziati trasformo sempre ciò che loro liberamente mi dicono, non nella sostanza ma nei termini della comunicazione. Tolgo enfasi, aggettivi, aggiungo informazioni qualificanti. Trasformo in parole preziose ciò che all’origine potrebbe o non dire nulla o risultare incomprensibile. Questo è il lavoro giornalistico.

E perchè va fatto. Perché spesso chi ho di fronte potrebbe anche essere un premio Nobel ma non sa comunicare, addirittura ascoltare. Nel tempo del coronavirus quando intervisto un virologo devo prima conoscere la sua storia. Perchè? Semplice, tutti sono il top ma c’è chi è abituato a parlare alle provette, chi ai topi, chi ai geni e chi ai pazienti. Alle persone. Credetemi ci sono differenze abissali anche su ciò che scrivono sui social. Poi c’è chi “lei non sa chi sono io?” e questi di solito dicono poco, o nulla.

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