Una panoramica approfondita su questo tumore: che cos’è, chi colpisce, quali sono i trattamenti e le nuove terapie in arrivo in Italia.

 

 

Tra le forme tumorali, la mielofibrosi è una delle più aggressive e con prognosi infausta. Sebbene colpisca una persona ogni 500 mila, con un’incidenza totale dell’1,4%, rappresenta un carico pesante per chi ne è affetto, perché può evolvere in leucemia mieloide acuta, causa del 20% dei decessi.

Presso la sede di GSK a Verona, si è tenuto un incontro con due clinici, il professor Francesco Passamonti, Ordinario di Ematologia all’Università di Milano e il prof. Alessandro Vannucchi, Ordinario di Ematologia all’Università di Firenze, che hanno spiegato in dettaglio tutto quel che c’è da sapere sulla mielofibrosi.

“È una neoplasia del midollo osseo, che promuove la proliferazione di globuli rossi anomali tutti uguali tra loro e la crescita di tessuto fibroso che danneggia il midollo stesso”, ha esordito Passamonti.

“Si sviluppa prevalentemente negli uomini tra i 60 e 66 anni e può essere primaria, cioè che insorge autonomamente, o secondaria, come conseguenza di un’altra neoplasia, come la policitemia vera (aumento di globuli rossi, bianchi e piastrine nel sangue) o la trombocitemia essenziale (proliferazione incontrollata di piastrine).

“La sintomatologia è sistemica e consiste in sudorazione notturna, prurito, perdita di peso, stanchezza“, ha proseguito il professore.

Ciò è dovuto al sovraccarico di citochine, molecole che promuovono l’infiammazione in tutto il corpo. Anche l’anemia contribuisce ai sintomi, provocando fatigue, fiato corto e debolezza.

“Si evidenzia anche da anomalie nell’emocromo, con bassi livelli di globuli rossi e anomalie nella conta di quelli bianchi e delle piastrine; inoltre, in circa il 90% dei casi, si ha un aumento di dimensioni della milza”.

 

Le mutazioni genetiche che possono causare la mielofibrosi

Anche se le cause dell’insorgenza della neoplasia non sono del tutto note, “nel 2005 è stata scoperta una mutazione di un gene, JAK2 per la precisione, che codifica per l’omonima proteina, che funge da segnalatore nelle cellule: l’anomalia genetica fa si che questa segnalazione errata porti alla proliferazione delle cellule stesse”, ha spiegato Vannucchi.

“In sostanza, dice in modo continuativo alle cellule di riprodursi”.

In seguito sono state scoperte altre due mutazioni driver, cioè cambiamenti nella sequenza genetica che guidano le anomalie cellulari, presenti nell’85% dei dei pazienti, quella del gene MPL, che codifica per un recettore e del gene CALR.

“Sono mutazioni acquisite, cioè non si trasmettono dai genitori: a volte sono acquisite in utero e poi si manifestano dopo decenni”, ha detto Vannucchi.

 

Diagnosi, prognosi e fattori di rischio della mielofibrosi

“È difficile capire il rapporto causa-effetto”, ha detto Passamonti, “e perché il paziente acquisisce le mutazioni: non ci sono fattori predisponenti. La malattia è l’insieme di una componente genetica più una componente infiammatoria, che porta alla progressione della malattia”.

“La diagnosi è un percorso complesso”, ha aggiunto Vannucchi, “negli ultimi anni sono disponibili test di laboratorio per identificare le mutazioni”.

“Ma circa il 10% dei pazienti sono triplo negativi, cioè non hanno alcuna delle tre mutazioni genetiche: sono quelli con un’aspettativa di vita molto bassa, inferiore a un anno e sono perciò candidabili al trapianto di cellule staminali“.

“Essendo una patologia molto eterogenea, la prognosi è variabile e per questo ci sono vari modelli di punteggio prognostico, tra cui il Sistema Internazionale di Classificazione Prognostica (IPSS), che divide i pazienti in differenti categorie di rischio”.

“Si va da quello basso, con un’aspettativa di vita tra i 10 e 15 anni, a quello alto, dove è inferiore ai due anni. L’IPSS serve quindi a stabilire quali pazienti sono candidabili al trapianto, una procedura molto rischiosa, che è giustificata quindi solo per chi ha poche speranze di sopravvivere a lungo”.

“In Italia è inoltre stato sviluppato il MIPSS70, uno score che si basa non solo su parametri clinici, ma anche su variabili molecolari, pensato per le persone over 70, come dice il nome”.

 

Le terapie per la mielofibrosi

“Per tutte e tre le mutazioni ci sono farmaci JAK inibitori, che inoltre ‘spengono’ un po’ le citochine e sgonfiano la milza, impiegati nella fase precoce della malattia sia in prima sia in seconda linea“, ha detto Passamonti.

“L’effetto indesiderato di questi farmaci è che causano anemia che diventa progressiva” ha aggiunto Vannucchi. “Ciò si verifica nel 40% dei pazienti e nel 60-70% nel corso del primo anno di terapia“.

“L’anemia è un problema importante per i pazienti, perché i sintomi impattano fortemente sulla loro qualità di vita: può peggiorare la malattia e quando sono necessarie trasfusioni c’è quindi per loro anche la necessità di un caregiver per andare in ospedale”.

“L’anemia può progredire fino a rendere necessaria la trasfusione una volta a settimana e inoltre l’accumulo di ferro derivante può causare problemi anch’esso”.

“Se i livelli di emoglobina restano attorno a 10-11 (la normalità è superiore a 12-13) i sintomi quali stanchezza, astenia, debolezza sono ancora lievi, ma se arriva al di sotto di 9 allora si deve ricorrere alle trasfusioni”, spiega Passamonti, “e diventano quindi un fattore di rischio per la prognosi”.

“Ecco dunque l’interesse della ricerca clinica per farmaci che non incidono sull’anemia” ha detto Vannucchi, “e qui si inserisce momelotinib, il farmaco JAK inibitore sviluppato da GSK, che è anche un inibitore del recettore activina 1″.

“Vale a dire che riduce efficacemente la produzione di epcidina (un ormone prodotto dal fegato), ripristinando l’assorbimento del ferro e aumentando i livello di emoglobina: significa che ha un effetto anche sull’anemia, riducendola”.

Inoltre, agisce sui sintomi, la splenomegalia (l’ingrossamento della milza) e le citopenie (riduzione di globuli rossi o piastrine distrutti dal sistema immunitario).

Momelotinib ha dimostrato una minore dipendenza dalle trasfusioni e i dati sulla sopravvivenza complessiva, ottenuti dagli studi clinici, evidenziano le differenze rispetto ad altri trattamenti in termini di capacità di influire positivamente sugli esiti dei pazienti.

È l’unico JAK inibitore in grado di migliorare l’anemia. Approvato dall’EMA, sarà disponibile in Italia a partire da settembre.