Le risposte agli interrogativi più importanti.

 

 

 

Poco più di un mese dal primo caso italiano in Italia, il 21 febbraio, e un mese dall’impennata di casi confermati soprattutto in Lombardia che ci ha portato subito a essere focolaio in Europa e secondi al mondo, con una mortalità più alta degli altri. Ogni giorno, alle 18, il bollettino della Protezione Civile, ci aggiorna con numeri sempre in ascesa ma che vanno analizzati come curva e letti in prospettiva. In prospettiva di un’uscita dal tunnel pandemia da coronavirus, da paura Covid-19. Nel frattempo, è un turbinio di informazioni diverse, tra fake e comunicazioni scientifiche, tra paure e speranze. Dopo un mese, quindi, interroghiamoci: Che cosa è successo? Come è mutata la situazione?

 

Intanto, picco o non picco?

La frenata continua. Lenta, ma continua. Ad oggi, senza entrare nei numeri che domani saranno già altri, l’andamento ci dice che la Lombardia sta davvero migliorando. Diminuiscono i nuovi casi giornalieri, aumentano guariti e morti. Ma i morti dipendono da casi ricoverati giorni prima e quindi incidono relativamente sull’analisi delle curve. Che cosa guardare? Quando le persone non più infette, perché guarite o decedute, supereranno i nuovi contagi. Si guarda la differenza e quando la differenza arriverà a zero è superato il picco. Ma attenzione, lo sarò in Lombardia. Occorrerà vedere come reagisce il resto d’Italia prima di parlare di picco raggiunto per il Paese. La velocità della discesa poi differisce da epidemia a epidemia. Comunque, massimo numero dei guariti e minimo numero dei nuovi contagi è la grande frenata dell’epidemia.

 

A parte l’età media della popolazione perché in Italia ci sarebbe una letalità più alta?

Un motivo è anche dovuto ai numeri delle morti da coronavirus a livello mondiale, alcuni Paesi non riportano tra i morti da coronavirus quelle di pazienti che avevano altre patologie importanti, per esempio un tumore o eventi cardiovascolari. E questo fa la differenza.

 

Si può fare altro per accelerare?

La sanità deve arrivare a svuotare gradualmente le terapie intensive, anche grazie a farmaci che funzionano, e aumentare i tamponi effettuati per intercettare i casi più in fretta, la diagnosi precoce è sempre efficace. Poi in Italia l’età media dei colpiti è significativamente più alta degli altri Paesi e la curva dei guariti è più lenta, come lo è il decorso. Questo rallenta un po’ la discesa della curva. Comunque, in Lombardia il picco sembra prossimo, forse già il 30 marzo. Ovviamente raggiungere il picco non significa “è finita”, significa che comincia la discesa verso il traguardo.

 

Veniamo ai farmaci in sperimentazione. Quali quelli che sembrano più efficaci?

Il “vecchio” farmaco per la malaria, la clorochina o l’idro-clorochina, sta superando bene i test. Negli Stati Uniti è sperimentata su 1500 pazienti in abbinamento a un antibiotico e tra un paio di settimane si avranno i risultati. La Francia ieri ha dato il via libera alla sua prescrizione nei pazienti ricoverati negli ospedali per coronavirus. Le prime pubblicazioni scientifiche parlano di miglioramenti e di guariti in pochi giorni.

 

E poi?

Il tocilizumab, utilizzato fino ad oggi sempre nella cura dell’artrite reumatoide. In alcuni pazienti a Napoli ha funzionato. E ora si sperimenta in Cina, in Italia e negli Stati Uniti.

 

Come mai sembrano funzionare farmaci che curano patologie apparentemente distanti dal coronavirus?

La clorochina impedisce che vengano prodotte delle molecole infiammatorie che si chiamano citochine, che richiamano i mediatori dell’infiammazioni nel luogo dell’infezione. Una parte della patologia Covid-19 è dovuta non tanto al danno diretto che il virus produce all’alveolo polmonare, ma al richiamare cellule del sistema immunitario che poi rilasciano mediatori infiammatori causa dell’effetto grave, cioè la polmonite interstiziale. Il tocilizumab condivide, in parte, con la clorochina il meccanismo immunologico e non ha però un effetto antivirale diretto, a differenza della clorochina. Per il virologo milanese Fabrizio Pregliasco è, comunque, il tocilizumab il più promettente tra tutti i farmaci in sperimentazione.

 

Nulla osta dell’Aifa anche all’utilizzo di lopinavir e ritonavir, due antiretrovirali utilizzati nel trattamento dell’HIV.  Che cosa ci si aspetta?

In Francia si prescrivono insieme alla clorochina, ma in generale il report dei medici cinesi che per primi li hanno sperimentati è stato negativo: non danno i risultati attesi e in più hanno effetti collaterali forti. Questi farmaci non hanno un effetto potentissimo contro il Covid-19, perché sono studiati appositamente per l’HIV.

 

C’è poi il farmaco ancora sperimentale utilizzato per il virus Ebola. Anche questo è in sperimentazione in Italia e negli Stati Uniti dopo i risultati in Cina e Tailandia.

Il remdesivir. È quello che ha all’attivo più sperimentazioni cliniche (sono ben 5): è un antivirale finora provato su Ebola. LItalia prende parte a due studi clinici condotti allo scopo di valutare l’efficacia e la sicurezza del farmaco negli adulti ricoverati con diagnosi di Covid-19.

 

Oltre alla sperimentazione sui farmaci, vi è sempre la speranza di poter vedere un vaccino. Quando potrebbe essere pronto?

Allo studio ve ne sono una ventina, uno italiano. Se danno segnali di possibile efficacia, però, non è possibile vederne l’approvazione che tra un anno e mezzo circa. Occorrono rigide sperimentazioni prima dell’ok e il coronavirus poi non è un virus facile contro il quale poter arrivare a un vaccino efficace.

 

E il farmaco giapponese promosso in un video amatoriale sul web, l’agavin?

Non risultano studi, nemmeno da parte dell’azienda giapponese che lo produce. È un anti-virale per l’influenza stagionale, ma a parte la richiesta di sperimentazione fatta da due Regioni italiane nessun Paese, nemmeno il Giappone, aveva iniziato dei test. In Giappone sembrano iniziati ora.

 

È vero che questo è un virus creato in laboratorio?

No. Un virus naturale e uno creato in laboratorio sono perfettamente distinguibili.

 

Dai dati a disposizione fino ad oggi sembra che le donne e alcune etnie siano più protetti da Codiv-19. È vero?

Sembrano esserci trend abbastanza convincenti che mostrano come effettivamente alcune etnie esprimano una maggior quantità del recettore del coronavirus che si chiama ACE2 mentre altre no.

 

Qualcosa in più poteva essere fatto in Italia?

Secondo gli osservatori esterni, sì. L’errore fatto in Italia sarebbe stato quello di iniziare a somministrare troppo tardi i farmaci antivirali, quando i pazienti presentavano già sintomi importanti. Come ci insegna l’esperienza di HIV, i farmaci devono essere dati subito nel momento della diagnosi. In modo da non arrivare ad una compromissione del sistema immunitario.

 

Sintomi che indicano una positività anche in assenza di quelli classici: febbre, raffreddore, mal di gola. Quali sono?
Due in particolare: perdita dell’olfatto e, o, del gusto. Questi sintomi ora in Gran Bretagna portano al tampone anche se non vi sono gli altri ritenuti indicativi.

 

Tecnologia e organizzazione. Altro insegnamento o no?

Mike Ryan, direttore del dipartimento per le emergenze sanitarie dell’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS), è stato chiaro: «Dobbiamo andare a caccia del virus e non aspettarlo in difesa. Bisogna rintracciare i contagiati e isolarli, e poi rintracciare tutti i loro contatti e isolare anch’essi. Altrimenti al primo allentamento delle misure restrittive l’epidemia potrebbe tornare a crescere esponenzialmente. Cina, Corea del Sud e Singapore sono gli esempi che l’Europa deve seguire».

 

Usando la tecnologia?

Per evitare la ripartenza dell’epidemia e vanificare gli sforzi del lockdown, la linea dell’OMS è chiara: isolamento dei pazienti con sintomi e tracciamento e isolamento degli individui con cui tali pazienti sono entrati in contatto. Se tali strategie sono perseguite con metodi tradizionali i ritardi nell’isolamento e nel tracciamento sono inevitabili. È per questa ragione che, oggi più che mai occorre replicare il modello Corea del Sud, nazione dove dopo l’esplosione iniziale la curva dei contagi l’epidemia ha iniziato a scendere rapidamente grazie al contact-tracing digitale. Ossia l’attivazione di un protocollo di tracciamento, test e isolamento delle persone venute in contatto con soggetti infetti. Un protocollo basato sull’uso di tecnologie digitali, su un numero estensivo di tamponi e sulla collaborazione della popolazione che si è sottoposta a screening volontario, una volta appreso di essere stati in possibile contatto con un soggetto infetto grazie ad app installate sul telefono che segnalavano i luoghi frequentati nei giorni precedenti dai soggetti trovati infetti. Un Grande Fratello della salute. Saltate tutte le garanzie sulla privacy, ma per il bene di tutti. L’importante è che a fine pandemia il Grande Fratello chiuda gli occhi.

 

E l’organizzazione delle strutture ospedaliere, non solo italiane?

Si è visto che gli ospedali possono essere i principali veicoli di trasmissione del Covid-19, poiché si riempiono rapidamente di malati infetti che contagiano i pazienti non infetti. Lo stesso sistema sanitario regionale contribuisce alla diffusione del contagio, poiché le ambulanze e il personale sanitario diventano rapidamente dei vettori. I sanitari sono portatori asintomatici della malattia o ammalati senza alcuna sorveglianza. Alcuni rischiano di morire, compresi i più giovani, aumentando ulteriormente le difficoltà e lo stress di quelli in prima linea.

 

Che cosa fare allora?

Cure a domicilio e cliniche mobili evitano spostamenti non necessari e allentano la pressione sugli ospedali. Ossigenoterapia precoce, ossimetri da polso, e approvvigionamenti adeguati a domicilio ai pazienti con sintomi leggeri o in convalescenza. Un tale approccio limiterebbe il ricovero a un gruppo mirato di malati gravi, diminuendo così il contagio, proteggendo i pazienti e il personale sanitario e riducendo il consumo di equipaggiamenti protettivi.

 

È vero che un antidoto al coronavirus è il caldo umido di alcune zone della Terra e il caldo umido che può arrivare da noi con l’estate?

No, anzi il caldo umido, come negli spogliatoi degli stadi o delle palestre, potrebbe favorirne la trasmissione. Più probabile che non ami il caldo secco. Quest’estate si vedrà.

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