Ancora non è stato possibile stabilire se e da quali animali sia arrivato il nuovo coronavirus. Fino a quando non ci sarà collaborazione le lacune nella conoscenza permetteranno a teorie dannose e scientificamente non supportate di prosperare.
Ricercatori negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Australia hanno lavorato a stretto contatto con colleghi in Cina per svelare l’origine del virus responsabile del Covid-19. Ma lamentano molti ostacoli e hanno detto a Nature di essere delusi dal lento rilascio di informazioni dalla Cina.
“Stiamo tutti cercando di scoprire che cosa sia successo, ma siamo ostacolati dai dati disponibili. O meglio dai dati non disponibili”, ha dichiarato a Nature Edward Holmes, virologo dell’Università di Sydney in Australia e co-autore di due degli ultimi preprint. Gli scienziati sono ansiosi di ottenere più dati sui primi giorni della pandemia, a seguito di tre rapporti pubblicati online nelle ultime settimane.
Sebbene non ancora recepiti su riviste peer-reviewed, i preprint forniscono ulteriori prove a sostegno dell’ipotesi che il coronavirus SARS-CoV-2 si sia diffuso dagli animali alle persone che li hanno allevati, macellati o acquistati. Ma i rapporti non rivelano esattamente che cosa sia successo.
Il gruppo consultivo scientifico dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per le origini dei nuovi agenti patogeni (SAGO) pubblicherà presto un rapporto che specifica gli studi che sono urgentemente necessari, afferma Maria Van Kerkhove, epidemiologa dell’OMS.
Una richiesta, alla luce dei nuovi preprint, è quella di raccogliere e analizzare campioni da agricoltori e animali selvatici nelle fattorie che hanno fornito il mercato all’ingrosso di frutti di mare di Huanan a Wuhan – a cui sono stati attribuiti molti casi precoci di COVID-19 e dove sono stati concentrati i campioni di coronavirus da gennaio 2020 – nonché dai venditori del mercato.
L’OMS ha dato queste indicazioni-suggerimenti un anno fa, ma gli studi non sono stati condotti o non sono stati ancora pubblicati. La comunità scientifica è frustrata dall’attesa, mentre il mondo cerca risposte per aiutare a prevenire future pandemie.
Alcuni scienziati cinesi dicono che anche loro vorrebbero vedere più studi sull’origine, ma che l’argomento è politicamente sensibile. Nel marzo 2020, una direttiva del governo cinese – evidenziata dall’Associated Press – ha incaricato i ricercatori di università, aziende e istituzioni mediche di far controllare tutti gli studi sul COVID-19 da unità di ricerca governative e quindi pubblicati sotto la supervisione di team che si occupano di opinione pubblica. Coloro che non seguono le procedure, avvertiva il documento, “saranno ritenuti responsabili”.
In realtà, le indagini sulle origini di un focolaio di solito richiedono molti anni per arrivare ad una conclusione, se mai la si raggiunge. Ma la comunità scientifica teme che le barriere politiche stiano bloccando il percorso di indagine. Van Kerkhove afferma che SAGO continuerà a delineare gli studi più pertinenti necessari e ad offrire aiuto con le analisi. Fino a quando questo non accadrà, avverte che le lacune nella conoscenza permetteranno a teorie dannose e scientificamente non supportate di prosperare.
“Se non otteniamo le informazioni di cui abbiamo bisogno”, dice Van Kerkhove, “allora c’è uno spazio da riempire, e c’è il rischio che le persone riempiano lo spazio con ipotesi”. In un esempio recente, esperti e funzionari negli Stati Uniti e in Cina hanno collegato accuse non supportate sulle origini del COVID-19 a teorie cospirative sui “biolabs” ucraini, afferma Yanzhong Huang, specialista in Cina e salute globale presso il Council on Foreign Relations di New York City.
“Tutte queste accuse avvelenano la situazione e rendono ancora più difficile una seria ricerca di risposte all’origine della pandemia”. Che però è fondamentale per evitare situazioni analoghe in futuro. Insomma, la scienza deve sapere come è comparso sulla scena il virus del Covid.
Le autorità cinesi hanno chiuso il mercato di Huanan il 1° gennaio 2020, dopo che i medici hanno riferito che molte delle persone che stavano curando per una misteriosa forma di polmonite avevano lavorato lì o lo avevano visitato poco prima di ammalarsi. Il 22 gennaio 2020, il Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) ha riferito che 33 dei 585 tamponi prelevati da tutto il mercato sono risultati positivi per SARS-CoV-2 e che questi campioni provenivano da due corridoi di bancarelle dove si vendevano animali selvatici.
“È altamente possibile che l’attuale epidemia sia legata al commercio di animali selvatici”, afferma il rapporto. I ricercatori hanno anche raccolto campioni da gatti randagi, topi e vasche di pesce e da carne e pesce congelati o in refrigerazione. Tutto è risultato negativo al virus. I ricercatori hanno continuato a raccogliere campioni nei successivi due mesi, ma nulla è sembrato provenire da animali selvatici venduti al mercato di Huanan, o da fattorie che allevavano animali selvatici da vendere lì per cibo, medicine o pellicce.
Quando un team internazionale di ricercatori riunito dall’OMS e dal governo cinese ha deciso di studiare le origini della pandemia in Cina alla fine di gennaio 2021, hanno chiesto informazioni sulle fattorie faunistiche che riforniscono i mercati di Wuhan. I ricercatori cinesi hanno consegnato al team un elenco di fattorie nel Sud della Cina.
Una regione in cui un “parente” stretto di SARS-CoV-2 è stato trovato nei pipistrelli, osserva Peter Daszak, uno dei ricercatori del team e presidente di EcoHealth Alliance, un’organizzazione scientifica di New York City che ha collaborato alla ricerca sul coronavirus con l’Istituto di virologia di Wuhan. Ma il team non ha visitato le fattorie e a Daszak è stato detto che non erano state studiate perché le fattorie erano state chiuse a seguito di un divieto sul consumo di animali selvatici nel febbraio 2020.
Il rapporto finale dell’OMS, pubblicato nel marzo 2021, era ambiguo nei dettagli sugli animali selvatici in vendita al mercato. Il rapporto afferma che “non è stato trovato alcun commercio illegale di fauna selvatica” e “non sono state trovate segnalazioni verificate di mammiferi vivi venduti intorno al 2019”. Ma ha anche fatto riferimento a fotografie di cani procione e altri animali vivi in vendita al mercato di Huanan nel 2014, che Holmes aveva presentato al team dell’OMS.
Infatti, pochi mesi dopo la pubblicazione del rapporto, i biologi della conservazione in Cina hanno pubblicato un articolo su Scientific Reports documentando più di 47.000 animali – tra cui 31 specie protette – che erano stati venduti al mercato di Huanan e in altri a Wuhan nel novembre 2019. Il rapporto ha osservato che quasi tutti gli animali sono stati venduti vivi in gabbie, che la macellazione è stata solitamente effettuata al mercato e che molte delle specie commercializzate sono note per ospitare una serie di malattie infettive. “Sono molto deluso dal fatto che il gruppo OMS non abbia avuto accesso a quel tipo di informazioni”, dice Van Kerkhove.
Cercando maggiori dettagli, il rapporto dell’OMS ha chiesto studi sulle fattorie della fauna selvatica. E ha raccomandato che le donazioni di sangue raccolte dalle persone tra settembre e dicembre 2019 e conservate presso il Wuhan Blood Centre, dovrebbero essere analizzate per gli anticorpi contro SARS-CoV-2. In una conferenza stampa nell’agosto 2021, Zeng Yixin, vice-ministro della Commissione sanitaria nazionale di Pechino, si è impegnato a completare gli studi delineati nel rapporto dell’OMS. Allo stesso tempo, ha respinto ferocemente le richieste del direttore generale dell’OMS di indagare ulteriormente sull’ipotesi che SARS-CoV-2 sia stato rilasciato dall’Istituto di virologia di Wuhan.
A più di un anno dalle raccomandazioni dell’OMS, gli studi degli allevamenti di animali selvatici, del Wuhan Blood Centre e dei laboratori di Wuhan devono ancora materializzarsi. I ricercatori cinesi coinvolti nell’indagine dell’OMS, così come altri del CDC cinese, non hanno risposto alle domande di Nature sullo stato degli studi e sul perché sono lenti ad emergere.
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