Il rischio è quello di curarsi con medicine fai da te trovate sul web e di peggiorare la propria salute.

 

Da oltre 35 anni, in qualità di giornalista specializzato, ho osservato i cambiamenti della pratica medica sia per le rapide acquisizioni scientifiche e tecnologiche sia organizzative. E posso affermare che il rapporto medico-paziente, l’alleanza fondata sulla fiducia reciproca, la sensibilità del terapeuta verso la fragilità del malato è venuta via via scemando. Fino a un aumento di denunce di malasanità in buona parte innescate solo dalla sfiducia. Prima carenza l’assenza, a livello formativo, di nozioni relative alla comunicazione. E alle novità introdotte dal web. Ma andiamo con ordine.

Una malattia di per sé cambia la vita, i rapporti in famiglia, quelli con la società, sicuramente con sé stessi. Per poco se acuta, da ridisegnare se cronica, radicalmente se molto grave o terminale. Il ruolo del medico in questi casi è fondamentale, soprattutto se riesce a creare e a mantenere un rapporto di fiducia di per sé taumaturgico. Non mi riferisco certo a un evento acuto che si risolve in pochi giorni, ma a eventi cardiovascolari, metabolici, neurologici, immunitari, osteoarticolari, oncologici tali da cambiare la vita.

La medicina moderna è sempre più di precisione, sempre più in grado di raggiungere successi, sempre più tendente a personalizzare malattie e terapie. Ma i medici moderni sempre più tecnologici sono ancora in grado di comunicare con i loro assistiti? Di innescare qual feeling necessario o restano asettici (non alle emozioni ma alle storie umane) e tecnologici. Lontani empaticamente da chi stanno curando? Sembra di no, nemmeno a livello di formazione.

Così malati e loro familiari cercano altrove risposte di ogni tipo, soprattutto quei tasselli della loro unità psico-fisica che si spargono come accade quando un puzzle già finito si riapre spargendosi. E l’altrove oggi è sempre più il web. Spesso fonte di cattive informazioni, a volte veicolo di falsi scienziati ladri di speranza. Esempio eclatante l’effetto non vaccinazioni, le “magie” per curare il cancro (più di ottomila italiani si curano con il veleno dello scorpione blu e non lo hanno comunicato ai loro medici), le millantate cure per il diabete (a cominciare dai drastici digiuni che hanno già ucciso alcuni pazienti).

Le istituzioni si stanno rendendo conto, con ritardo, del problema Rete. L’Accademia ancora no. L’uso della Rete a fini medici rientra nell’ambito della comunicazione con il malato. Che oggi possiamo definire “malata” anch’essa. Peraltro c’è anche un dilagare dilagare delle «farmacie online»: alcune con sede in Paesi dove sono legali (ma non dovrebbero sconfinare), altre non solo illegali ma anche spaccio di medicinali artefatti o «rubati». Che incide, non poco, nell’uso improprio del web: fonte di informazioni mediche, spesso da parte di siti assolutamente non attendibili, che poi non vengono nemmeno verificate con il proprio medico. S

econdo un recente studio internazionale sui «pazienti nella Rete», otto italiani su dieci (81%) tra i 18 e i 45 anni si affidano a Internet per cercare informazioni sulla salute e sui farmaci, mentre uno su due (47%) ricorre al web addirittura per l’autodiagnosi. Di questi, tre su quattro non controllano l’attendibilità delle fonti (ricerca della London School of Economics sui servizi sanitari). I pazienti italiani sono tra i più «digitali» in assoluto: più connessi dei cugini francesi (con il 59% si rivelano i meno propensi a ricorrere al web), degli spagnoli (72%), degli inglesi (73%) e dei tedeschi (80%), risultano secondi solo ai russi (con il 96% i più digitalizzati del mondo), ai cinesi (92%) e agli indiani (90%). Da segnalare, infine, un 13% di italiani che ricorre ai social media come Twitter o Facebook per postare commenti e domande o approfondire temi medici.

Altra indagine del 2015, tutta italiana, ci informa che ormai la metà degli italiani cerca attivamente on line informazioni sulla salute ma il 63% si reca comunque dal proprio dottore di fiducia per ulteriori informazioni. Quota che scende al 54 in altre ricerche. Il web, considerato utile come fonte di informazione dal 74% degli italiani, diventa il secondo riferimento dopo il medico. Superati farmacisti, parenti e amici ed i media. E la sensazione è che presto anche il medico di medicina generale sarà sorpassato dal dottor Web. E attenzione: la maggior parte dei medici pensa che la grande quantità di informazioni che si trovano sulla salute possano confondere le persone, ma non fa nulla per cambiare approccio. Colpevolizza pazienti e parenti, senza affrontare il vero problema: le sue carenze. La soluzione, in realtà, è favorire l’alleanza con il paziente includendo internet nella relazione.

Ancor più se si interagisce con chi, per cronicità, ha bisogno di imparare l’autogestione e l’aderenza alle cure. Soprattutto quando si sente bene, non perché non più malato ma perché i sintomi sono sotto controllo. Il malato di diabete di tipo II è tra i soggetti ad alto rischio di scollegamento con il medico. Nel diabete di tipo I, quello giovanile, l’alleanza medico-paziente è più salda, anche se poi sono i genitori del malato a tendere verso il dottor Web o verso “sirene” fellone.

Il medico di oggi sa di genetica, conosce farmaci innovativi, parla di recettori, opera con il robot, ha alle spalle laboratori sofisticati e può guardare “dentro” ai pazienti con imaging a tre dimensioni. A lui non serve più toccare e auscultare, non serve più ascoltare. E siccome, è noto, dovrebbe evitare coinvolgimenti emotivi, tende a non incontrare proprio il paziente. Nemmeno sul web. Nemmeno sui social network. E non sa niente di sfumature taumaturgiche che lo scientificamente asettico mondo anglosassone ha cominciato a codificare negli ultimi decenni, in parallelo al progresso tecnologico, proprio per recuperare il rapporto medico-paziente. Per esempio la medicina narrativa, che comunica importanti informazioni emotive pur mantenendo il distacco di una corretta terapia. Ma già la comunicazione narrata e ascoltata sembra ricca di risvolti taumaturgici. Soprattutto utile per l’appropriatezza e l’aderenza alle cure.

Tornando alla ricerca tra i pazienti italiani, lo sviluppo delle nuove tecnologie e la loro diffusione nella popolazione ha contribuito a cambiare anche il modo in cui i pazienti si informano sulla salute e si influenzano vicendevolmente. Il primo dato che emerge è che 1 italiano su 2 ricerca attivamente informazioni sulla salute, 2 su 3 nella fascia tra i 25 e i 55 anni. Per tutti il medico è ancora un riferimento centrale (64% medico di base, 50% medico specialista), ma subito dietro c’è il web, il cui ruolo rilevante viene confermato dal 49% degli intervistati. E che è in costante aumento.

Vengono dopo i consigli del farmacista (37%), quelli di parenti e amici (36%) e infine quelli dei media (24%). Varia il channel mix in base al livello di istruzione: i laureati utilizzano molteplici canali ricorrendo al medico di medicina generale per il 59% e al web per il 73%, mentre chi ha la sola licenza elementare registra una fortissima prevalenza del medico di base, 71%. Chiaramente diverse le informazioni ricercate a seconda della gravità delle condizioni di salute con chi ha problemi più gravi che cerca per il 59,3% informazioni sui centri di eccellenza e per l’83,7% sullo specifico problema di salute, mentre tra chi ha non ha problemi di salute specifici il 58,2% cerca informazioni su corretti stili di vita o comportamenti salutistici.

Diverse e articolate le informazioni cercate sul web: alla domanda “quali informazioni sulla salute ha cercato su internet?” L’83% degli italiani indica informazioni riguardanti le patologie, il 66% sulle possibilità di cura e il 64% sui corretti stili di vita. Le ricerche comprendono inoltre accentuazioni specifiche sui farmaci prescritti dal medico (44%) e sui farmaci da banco (35%).

Si cerca soprattutto sui siti mentre blog e forum vengono mediamente utilizzati da 1 su 4, in particolare dalle fasce più giovani rispetto a quelle più anziane. Molto positiva la valutazione del canale web che viene preferito rispetto ai media tradizionali, in particolar modo dalle persone “attente alla salute”, e considerato facile da consultare (85%), utile (76%) e affidabile (65%). L’uso del web appare comunque equilibrato. Se si analizza quale peso hanno poi le informazioni in fatto di salute trovate online emerge che queste influenzano le decisioni e i comportamenti futuri di solo il 48% del panel, uno sviluppo che trova d’accordo tutti i diversi livelli di istruzione.

Ma il medico come si rapporta a un paziente informato dal web? In ambulatorio si vive spesso come una “minaccia” la relazione con il nuovo paziente 2.0: solo il 10% dei medici di medicina generale e il 17% degli specialisti pensa che sia utile cercare informazioni su internet e utilizzarle per confrontarsi con il medico e comprendere meglio la propria situazione, probabilmente perché una buona fetta (il 33% degli specialisti e il 42% dei generalisti) è convinto che informarsi su internet possa poi rendere più difficile il rapporto con il medico. Questo non fa che allontanare i due soggetti incrinandone la relazione.

Diventa allora fondamentale favorire l’alleanza fra paziente e medico e fornire a quest’ultimo strumenti di presidio per guidare la popolazione nelle ricerche online. Internet necessita di essere incluso nella relazione potendo affermarsi quale collante e area di confronto all’interno della relazione.

Nella storia, l’impostazione della medicina costituita da una quantità di specializzazioni ha portato a risultati straordinari, sino al trapianto di organi, ma ha polarizzato l’attenzione sull’organo ammalato, trascurando la persona che è portatrice della malattia. In pratica, un validissimo artigianato, certamente scientifico, che ossessivamente deve risolvere l’alterazione, anatomica o funzionale, dell’organo ammalato. Ma quest’organo, insieme a tanti altri, fa parte di un essere vivente che è costituito da un corpo e una mente. Cioè, la persona.

Ed eccoci quindi alla medicina della persona. Come si può definire una “persona”?  Nel modo più semplice: un essere dotato di coscienza di sé e in possesso di una propria identità. Una delle etimologie di persona è “per sé unica”, che sottolinea quindi l’individualità. Secondo Tommaso d’Aquino una persona è definita tale se in possesso di sostanzialità, razionalità, individualità. Molti condividono anche il pensiero che persona debba essere un individuo capace di auto progettualità. E anche una persona malata, quindi fragile e in subbuglio rispetto all’ego stesso, deve preservare le capacità della “persona”. Aiutato dai propri cari e dal proprio medico.

Ed ecco il problema. Noi siamo eredi di una concettualità anglosassone nel rapporto medico-paziente, che sogna una logica comprensibile: la medicina deve essere il più possibile scientifica. Ma la scienza, per definizione è oggettività, cioè osservazione oggettiva di fenomeni e situazioni che permettono una valutazione diagnostica e terapeutica “evidence based”, basata sull’evidenza. Quindi, si deve evitare che il medico possa in qualche modo trasgredire a questo principio ed abbandonarsi a valutazioni “soggettive” e quindi anti-scientifiche.

Proprio questa oggettività anglosassone impone di osservare la persona malata con una buona dose di distacco terapeutico, perché un coinvolgimento emozionale può portare il medico a decisioni suggerite più dai sentimenti che dalla razionalità. Quindi il terapeuta deve innalzare una barriera ideale tra sé stesso e la persona che ha davanti. È un dato di fatto, per esempio, che un medico non debba curare un proprio familiare o una persona che ama, perché emozione e sentimenti potrebbero influenzarne negativamente le decisioni.

Tutto ciò è razionale e logico, ma si scontra contro una realtà e una verità che non possono essere ignorate. E cioè che la malattia colpisce un organo o un apparato ma, come già detto, viene elaborata nella mente dalla persona colpita. E non è proprio pensabile, anzi posso affermare alla faccia degli anglosassoni che non è scientifico, curare una persona se non la si conosce profondamente. Il problema che si pone a questo punto è, però, anche metodologico. Come fare per “entrare” nel profondo della persona mantenendo il giusto distacco? Qui ci viene in soccorso la “medicina narrativa”, una nuova area della medicina, che esplora la modalità di un rinnovato rapporto tra medico e paziente. Fondamentale, per esempio, nel caso dei tumori, in campo cardiologico e nelle malattie croniche come il diabete.

La medicina narrativa (o “Narrative Based Medicine”, termine coniato da Rita Charon), nasce proprio con il tentativo di colmare la carenza (incapacità) di prendere in considerazione, per la cura, gli aspetti personali, dati soggettivi, del malato. Oggi la medicina è presente nella nostra vita quotidiana, e tutti abbiamo ormai familiarità con le strutture del sistema sanitario. Tuttavia, a causa della concezione aziendale sempre più adottata dagli ospedali, il rapporto tra medico e paziente sta andando affievolendosi e raffreddandosi. Il paziente viene visto più come un insieme di dati oggettivi e non come un individuo unico con bisogni e necessità. Già il fatto di essere identificati come numero di camera o come patologia, o peggio ancora interpellati con il tu, aumenta la fragilità, annichilisce la psiche e anche il sistema immunitario.

In questo senso la medicina narrativa si avvicina, filosoficamente parlando, agli approcci olistici che a fronte di una classificazione rigida delle malattie, propongono una soggettivazione del paziente, visto nella sua complessità e unicità.

Le storie offrono l’occasione di contestualizzare dati clinici e soprattutto bisogni, incertezze, emozioni e aspettative nell’incontro con la malattia, apportando una ricchezza e una pluralità di prospettive oggi assenti. La narrativa permette al paziente di sentirsi non isolato, ma al centro, e questo offre, a sua volta, agli operatori ospedalieri la possibilità di avere una visione più completa dei problemi. La narrazione della patologia del paziente verso il medico viene quindi considerata al pari dei segni e dei sintomi clinici della malattia stessa. E, badate bene, questo non riguarda solo l’ospedale ma anche il rapporto ambulatoriale. Lasciare la prescrizione compilata secondo richiesta in mano all’infermiera non gratifica il paziente, un incontro anche di pochi minuti è già una scossa curativa.

Comunicare il proprio stato di malattia, e relazionarsi empaticamente, aiuta il paziente a: prendere decisioni con più consapevolezza; relazionarsi con gli altri; esprimere stati d’animo e disagi; condividere testimonianze, che potranno essere utili ad altri medici o pazienti.

La medicina narrativa non vuole contrapporsi a quella tradizionale, basata sull’evidenza, ma vuole (e deve) essere uno strumento di supporto ad essa. Anzi, occorre una sinergia tra le due. Per questo oggi è necessario che le nuove figure mediche sviluppino capacità comunicative ed empatiche. Non sono capacità innate, ma sono strumenti che possono essere appresi e interiorizzati.

La medicina narrativa va oltre la valutazione della qualità delle cure sentita dal paziente (soddisfazione e insoddisfazione). Mira a ridefinire la pratica clinica nel suo complesso, aprendosi alle nuove scienze sociologiche e antropologiche. Raccogliere e portare alla luce un’esperienza da parte del paziente non è facile, richiede tempi appropriati, riflessioni adeguate ed una formazione specifica.

Questa nuova disciplina può arricchire la cura attraverso l’attenzione e l’utilizzo, anche in fase terapeutica, dei racconti dei pazienti o della famiglia, dando il giusto peso ai diversi punti di vista dei soggetti. Nei casi più drammatici questi aspetti assumono un’importanza imprescindibile. È stato visto, per esempio, che far rivivere a un paziente episodi positivi del suo passato (acquisiti con una sorta di cartella clinica in chiave medicina narrativa) può ridurre il dosaggio di farmaci per un’anestesia locale in sala operatoria. E anche il recupero post-intervento.

La domanda che ora si pone è: il corso di medicina offre spunti di insegnamento per quanto riguarda il rapporto tra medico e persona ammalata? Innanzitutto nelle premesse istituzionali è sottolineato che il corso di laurea è finalizzato alla formazione di una figura di neolaureato capace di associare a una solida conoscenza scientifica una profonda sensibilità verso la complessa problematica umana e sociale della malattia. Lo studente deve essere stimolato a dedicare costante attenzione agli aspetti umani della malattia e a sviluppare capacità di affrontare i problemi medici secondo una metodologia scientifica.  Le premesse sono buone. Forse occorrerebbe un metodo di valutazione “sul campo” della capacità reale, concreta, del giovane medico a mettere in atto la sua attenzione agli aspetti umani della malattia. Meglio ancora, studiare con test motivazionali la reale propensione alla professione medica al momento dell’ammissione al primo corso di studi. Ma forse anche i docenti dovrebbero studiare come comunicare, agli studenti prima che ai loro pazienti.

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