Li abbiamo conosciuti dai film e racconti di fantascienza, gli astronomi li hanno cercati per decenni e finalmente li hanno “visti” e poi fotografati al centro della Via Lattea e nella galassia M87. Le fusioni di coppie di questi oggetti sono state osservate per la prima volta meno di dieci anni fa, grazie ai rilevatori di onde gravitazionali. Ma cosa sono davvero e cosa c’è al loro interno? Ecco tutto quel che c’è da sapere su questi mostruosi divoratori cosmici.

 

 

Nella prima parte abbiamo visto come i buchi neri siano stati ipotizzati teoricamente dalle equazioni di Einstein e come gli astronomi, una volta capito che questi oggetti potevano formarsi dal collasso di stelle morte, abbiano iniziato a dar loro la caccia nel cielo per confermare la loro esistenza.

Ma come scovare oggetti che per loro natura sono invisibili? Facciamo prima una considerazione statistica: nella nostra galassia, così come in tutte le altre, moltissime stelle non vivono sole, ma hanno una compagna.

Sono i cosiddetti sistemi binari, formati da due astri che ruotano l’uno intorno all’altro. Ebbene, che succede se uno dei due arriva alla fine del proprio ciclo evolutivo e diventa un buco nero?

A causa della vicinanza con l’altro astro, un buco nero strappa materia alla compagna e questo gas, che precipita vorticosamente verso il suo centro, si surriscalda fino a milioni di gradi, emettendo intensi fasci di raggi X.

Ecco così che il buco nero rivela la sua presenza: agli astronomi non resta da fare altro che cercare sorgenti nel cosmo di radiazioni X.

E proprio captando una di queste, gli astronomi hanno scoperto che al centro della Via Lattea c’è un enorme buco nero. Anzi, mostruosamente enorme: la sua massa, infatti, è stata calcolata in quattro milioni quella del Sole.

Come è stato possibile dedurre questo numero? Gli scienziati hanno osservato i movimenti delle stelle vicine al centro galattico e hanno visto che si spostano a velocità elevate, come se nel cuore della Via Lattea ci fosse un oggetto, – invisibile, ma con un’immensa forza di gravità – che le fa girare attorno ad esso; proprio come la forza gravitazionale del Sole dà la spinta ai pianeti per orbitargli intorno.

Ovviamente questo buco nero non può essere di origine stellare e gli scienziati ipotizzano che si sia formato dalla fusione di tanti buchi neri, fino a diventare così grande.

La fusione di buchi neri è stata osservata per la prima volta dai rilevatori di onde gravitazionali LIGO (negli USA) e Virgo (vicino a Pisa) meno di dieci anni fa.

Le onde gravitazionali sono increspature del tessuto dello spazio-tempo che si propagano alla velocità della luce nel cosmo e sono generate dallo scontro di oggetti molto massicci, come due stelle di neutroni o buchi neri.

Previste dalla teoria della relatività generale più di cento anni fa, è stato possibile confermare la loro esistenza solo un secolo dopo, quando la tecnologia ha permesso di realizzare rilevatori sensibilissimi in grado di intercettarle.

Tornando al buco nero della nostra galassia, chiamato Sagittarius A* perché si trova in direzione della costellazione del Sagittario, non solo è stata confermata la sua esistenza, ma è stato anche fotografato nel 2022: grazie a radiotelescopi presenti su tutto il globo è stato possibile ricostruire la sua ombra dalle emissioni radio che lo circondano.

L’immagine, come ci si aspetterebbe, mostra una ciambella infuocata (il colore rosso è stato scelto per rappresentare nel visibile le onde radio, altrimenti invisibili), risultato delle polveri incandescenti che circondano l’immenso buco nero.

Già nel 2019, la rete di telescopi Event Horizon Telescope, aveva prodotto la prima immagine radio di un buco nero galattico, quello al centro di M87, galassia a 56 milioni di anni luce da noi: questo mostro spaziale “pesa” ben 6,6 miliardi di volte il nostro Sole.

Può sembrare paradossale ma, ipoteticamente, una persona potrebbe attraversare l’orizzonte degli eventi di questi buchi neri e precipitare indenne verso la singolarità al suo centro.

Infatti, se – sempre ipoteticamente – ci si avvicinasse a un buco nero di origine stellare, in prossimità di esso ci sarebbe una forza gravitazionale così intensa che una persona finirebbe “spaghettificata”: la differenza di potenziale gravitazionale tra la sua testa e i piedi sarebbe così elevata da stirarla come uno spaghetto.

Invece, per i buchi neri al centro delle galassie, il grande raggio di curvatura dell’orizzonte degli eventi è tale da annullare questo effetto.

Ma, se fosse possibile arrivare oltre l’orizzonte degli eventi, cosa vedrebbe un ipotetico osservatore? Come già detto nella prima parte, potrebbe osservare tutto ciò che sta al difuori dell’orizzonte, ma non sarebbe in grado di comunicare con l’esterno, perché ogni segnale emesso precipiterebbe con lui verso la singolarità.

E che cos’è quest’ultima? Sappiamo che è un’anomalia, almeno dal punto di vista matematico, perché è la concentrazione in un punto infinitesimale di una massa enorme, quella della stella da cui si è generato il buco nero.

Ma la singolarità non si trova al centro della sfera racchiusa dall’orizzonte degli eventi. Anzi, la domanda corretta da porsi non è dove si trova, ma quando.

La singolarità di un buco nero è un momento nel tempo, non nello spazio. Un volta passato l’orizzonte degli eventi, un osservatore non può far altro che andare incontro alla singolarità, dato che questa si trova davanti a lui nel tempo (non nello spazio) e non può fare a meno di incapparvi, così come non si può fare a meno di incappare nel domani.

Varcato il limite dell’orizzonte degli eventi, non c’è più l’opzione di poter tornare nell’universo esterno e rimane solo quella di proseguire inesorabilmente verso la singolarità.

Si può immaginare il buco nero nello spazio tempo come il classico imbuto, che però ha un’estensione infinita. Si prolunga nel tempo e alla fine di esso c’è ancora la stella da cui si è formato, che prosegue a collassare su se stessa, allungando il collo dell’imbuto all’infinito. La singolarità è quindi sempre avanti nel tempo, un perenne futuro.

Quindi i buchi neri sono eterni? La domanda ha causato non pochi grattacapi ai fisici teorici, ma negli anni ’70 del secolo scorso il fisico Stephen Hawking ha ipotizzato una possibile risposta al quesito, che vedremo nella terza parte.