Li abbiamo conosciuti dai film e racconti di fantascienza, gli astronomi li hanno cercati per decenni e finalmente li hanno “visti” e poi fotografati al centro della Via Lattea e nella galassia M87. Le fusioni di coppie di questi oggetti sono state osservate per la prima volta meno di dieci anni fa, grazie ai rilevatori di onde gravitazionali. Ma cosa sono davvero e cosa c’è al loro interno? Ecco tutto quel che c’è da sapere su questi mostruosi divoratori cosmici.
In principio furono chiamati “stelle nere”. Così, nel 1783, lo scienziato inglese John Mitchell ipotizzava l’esistenza di corpi celesti “anomali”, cioè in grado di non emettere alcuna luce, perché essa era completamente imprigionata nel loro fortissimo campo gravitazionale.
La storia della scoperta di questi oggetti inizia da qui. Da una banale considerazione sulla fisica classica.
Se si lancia un sasso per aria, questo cadrà al suolo più o meno rapidamente, a seconda della velocità con cui è scagliato.
Ma se si imprime una velocità abbastanza forte, il sasso può sfuggire alla gravità che lo riporta al suolo e raggiungere lo spazio.
Tale velocità è chiamata “di fuga”, ed era già nota ai fisici prima che si realizzassero razzi e missili per portare in orbita satelliti artificiali.
Ogni pianeta ha la sua, che dipende da due cose: la sua massa e il suo raggio. Per la Terra vale circa 11 chilometri al secondo.
Mitchell si pose una domanda molto semplice: cosa succede se una stella ha una massa così grande per cui la sua velocità di fuga è maggiore di quella della luce?
La risposta era ovvia: anche se tali corpi celesti esistessero, non si potrebbero vedere, perché, a differenza delle stelle, non riescono a emettere luce.
Per cinquant’anni la questione rimase marginale e non interessò più di tanto gli scienziati. Poi arrivò Einstein. Nel 1915 pubblicò la sua famosa equazione di campo, che lega la geometria del cosmo alla gravità.
Intanto, in Europa infuriava la guerra. Sul fronte russo, un fisico tedesco, che prestava la sua conoscenza per la balistica delle artiglierie, lesse l’opera del collega e risolse l’equazione di campo: trovò una particolare soluzione che implicava una proprietà alquanto insolita, che ricordava proprio le “stelle nere”.
Karl Schwarzschild, questo il suo nome, dimostrò infatti che per una certa massa e per un certo raggio esiste un confine, che fu chiamato poi orizzonte degli eventi, tale per cui ogni cosa che lo oltrepassa non può tornare più indietro, attratta inesorabilmente verso il centro.
Non può farlo nemmeno la luce, che è una forma di radiazione elettromagnetica e la cui velocità è la massima consentita dalla relatività ristretta, formulata sempre da Einstein dieci anni prima.
Quando comunicò questo risultato ad Einstein, questi rimase perplesso e dichiarò che la soluzione era sì corretta, ma che non poteva esistere in natura un oggetto simile.
Schwarzschild morì nel 1916 a causa di un’infezione contratta in guerra e dopo di lui pochi altri fisici si dedicarono a questa particolare soluzione dell’equazione di campo.
Passarono altri cinquant’anni e le conoscenze sulla vita delle stelle si evolsero: furono scoperti astri morenti ed altri in procinto di esplodere, così da ricostruire tutte le fasi della loro esistenza.
Vediamo cosa dedussero gli astrofisici. Quando una stella molto massiccia esaurisce tutto il combustibile che la fa risplendere – e che con la sua energia contrasta la gravità che farebbe schiacciare su se stesso l’astro – l’equilibrio tra la forza gravitazionale del corpo celeste e la spinta esterna data dalle reazioni nucleari al suo interno si rompe.
Mancando la seconda delle due, predomina la forza di gravità, che fa collassare su se stessa la stella fino a che diventa così densa che gli atomi si disgregano, formando un plasma di particelle.
Elettroni e protoni si fondono in neutroni e l’astro diventa una stella di neutroni, con un diametro di appena venti chilometri. La sua forza gravitazionale è così intensa che un cucchiaino di zucchero sulla sua superficie pesa quanto l’Everest.
C’è però una forza repulsiva, di origine quantistica, che impedisce ai neutroni di fondersi l’un l’altro e la vestigia dell’astro raggiunge così un nuovo equilibrio.
Queste stelle ruotano molto velocemente su loro stesse ed emettono fasci di onde radio generati dal forte campo magnetico e plasma che le circonda.
Se i getti di onde sono in direzione della Terra, allora è possibile rilevare questo segnale pulsante a intervalli di una regolarità maggiore di quella scandita da qualsiasi orologio: quando furono individuati per la prima volta, si pensò infatti a un segnale di origine aliena.
Ma se l’astro progenitore ha una massa molto elevata, allora nemmeno la forza quantistica è in grado di opporsi a quella gravitazionale e la stella di neutroni collassa ulteriormente su se stessa, fino a concentrare tutta la sua massa in un punto infinitesimale.
John Archibald Wheeler coniò, nel 1967, il termine buco nero per tale singolarità. Ma c’è di più. Dalla matematica della relatività generale si evince che attorno ad essa esiste un confine, chiamato raggio di Schwarzchild (che delimita l’orizzonte degli eventi), oltrepassato il quale materia e radiazione non possono più tornare all’esterno, inghiottiti dal buco nero e attratti verso la singolarità.
Significa proprio che la velocità di fuga del buco nero, sull’orizzonte degli eventi, è molto maggiore di quella della luce. Non solo. La soluzione di Schwarzchild prevede altre proprietà insolite che derivano dalla relatività generale.
Proprietà contro intuitive. Per un osservatore esterno, infatti, il tempo rallenta sempre più man mano che un oggetto si avvicina all’orizzonte degli eventi, fino a fermarsi completamente sulla superficie di questa sfera che avvolge il buco nero.
Ma, attenzione: se ci fosse un altro osservatore a bordo dell’oggetto che precipita verso il buco nero, per lui il tempo trascorrerebbe normalmente e non percepirebbe alcuna differenza nemmeno oltrepassando l’orizzonte.
Ma a quel punto, non potrebbe più vedere né interagire con l’osservatore esterno, perché tutto quel che succede dentro all’orizzonte degli eventi, rimane nell’orizzonte degli eventi.
Tutto questo deriva dall’equazione di campo, che descrive come la massa di un oggetto incurva lo spazio-tempo intorno a sé.
Maggiore è la massa, più curvo è lo spazio tempo. Ecco allora che il tempo di quella regione spazio temporale incurvata si dilata per chi lo osserva al di fuori di quella regione spazio-temporale.
Vediamola così: la massa del buco nero incurva così tanto lo spazio-tempo sull’orizzonte degli eventi, che la luce eventualmente emessa da un oggetto ivi posto segue una traiettoria circolare, ruotando attorno alla superficie e non uscendone mai. Come se il tempo fosse congelato, per noi che guardiamo dall’esterno.
L’evoluzione stellare, per tornare alle osservazioni astronomiche, prevede che stelle con massa superiore a otto volte quella del Sole finiranno la loro vita così, in un buco nero.
I buchi neri, che fino agli anni ’60 del secolo scorso erano stati ipotizzati solo teoricamente come una bizzarra anomalia matematica dell’equazione di campo, avevano trovato dunque una loro collocazione in astronomia, anche se anch’essa solo teorica.
Adesso bisognava trovarli. Ma come fare a osservare un oggetto oscuro, che intrappola la luce e ogni altra radiazione al suo interno? Nella prossima puntata vedremo come.