Un nuovo rapporto mostra che cosa significa aver sprecato un decennio dopo l’accordo di Parigi.
L’ultimo decennio politicamente sprecato sembra che costi caro alle popolazioni per quanto riguarda surriscaldamento e cambiamenti climatici. Ha ridotto i tempi utili per fermare la situazione di due terzi. Nel 2010 in un rapporto ONU si era valutato che trent’anni per dimezzare le emissioni globali di gas serra fossero sufficienti. “Oggi – scrive Nature – sappiamo che ciò deve avvenire al massimo in dieci anni”. Dieci anni invece di 30 per ridurre al minimo gli effetti dei cambiamenti climatici. E questo perché nel frattempo la situazione non è migliorata di molto, se non peggiorata (Stati Uniti).
L’ulteriore cattiva notizia è che, anche se attuate all’unisono, le “cure” per il clima proposte da tutti i Paesi sono molto distanti dal soddisfare l’obiettivo. Invece di dimezzare le emissioni entro il 2030, le proposte climatiche dei Paesi porteranno addirittura a un leggero incremento delle emissioni. Peggio ancora, secondo gli editorialisti di Nature: “I singoli Paesi non sono sulla buona strada per raggiungere impegni che erano insufficienti fin dall’inizio e che ora sono dolorosamente inadeguati”.
La notizia migliore è che un numero maggiore di Paesi, Regioni, città e imprese sta attuando trasformazioni profonde e rapide. Su vasta scala, queste azioni potrebbero raggiungere gli obiettivi climatici collettivi che le nazioni hanno concordato a Parigi più di quattro anni fa. Ci sono lezioni da imparare da luoghi come il Costa Rica, Shenzhen in Cina e Copenaghen che hanno fatto passi da gigante attraverso l’uso di energia rinnovabile e il trasporto elettrificato.
Il Regno Unito e la California hanno almeno fissato obiettivi ambiziosi per diventare carbon neutral, che potrebbe inviare segnali all’industria anche prima che vengano attuate politiche di sostegno. Nel frattempo, 26 banche hanno smesso di finanziare direttamente nuove centrali elettriche a carbone (vedi go.nature.com/32uped2). La domanda, però, è come intensificare queste attività abbastanza velocemente da mantenere il riscaldamento a meno di 1,5 °C al di sopra dei livelli preindustriali? E sarà possibile accelerare i cambiamenti positivi senza un impegno politico univoco, senza fughe indietro per meri interessi lobbistici. D’altra parte, se non si rispettano accordi presi, a parte le responsabilità singole, non vi sono sanzioni previste o prevedibili.
Ecco allora la panoramica che emerge dal rapporto che ha analizzato i singoli impegni delle Nazioni e valutato quanto sono incompatibili con gli obiettivi collettivi dichiarati. Si tratta di valutazioni derivate dalle dieci edizioni del “Rapporto sul divario delle emissioni” del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) 1–5. Ogni anno nell’ultimo decennio, questo rapporto ha esaminato la differenza tra ciò che i Paesi si sono impegnati a fare individualmente per ridurre le emissioni di gas a effetto serra e ciò che devono fare collettivamente per raggiungere gli obiettivi di temperatura concordati.
L’analisi commentata su Nature mostra che il divario si è ampliato di ben quattro volte dal 2010. In primo luogo, le emissioni globali annue di gas a effetto serra sono aumentate del 14% tra il 2008 e il 2018. Ciò significa che ora le emissioni devono diminuire più rapidamente di quanto precedentemente stimato, poiché sono le emissioni cumulative che determinano l’aumento della temperatura a lungo termine. In secondo luogo, la comunità internazionale ora concorda sul fatto che deve garantire un aumento della temperatura globale inferiore rispetto a quanto decise dieci anni fa, perché i rischi climatici cominciano a essere visibili e meglio compresi. In terzo luogo, le nuove promesse climatiche dei Paesi sono state insufficienti. Infine, c’è la spinta dei giovani preoccupati del loro futuro prossimo e che richiamano gli adulti e i decisori a cambiare rapidamente rotta perché “la casa brucia” e non “sta per bruciare”.
Nel summit di Parigi i Paesi si erano impegnati a comunicare, ad aggiornare gli impegni sul clima, a presentare “contributi determinati a livello nazionale”, alla conferenza della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26) di novembre a Glasgow, nel Regno Unito. Chiaramente, le promesse devono essere riviste – e, soprattutto, mantenute – se il divario tra il dire e il fare si è ampliato e va colmato entro il 2030. Il quadro della situazione dipinto su Nature era quindi più che opportuno in vista di Glasgow.
Che cosa è cambiato negli ultimi dieci anni? Nell’accordo di Copenaghen del 2009 e nell’accordo di Cancun del 2010, i Paesi si sono impegnati collettivamente a limitare il riscaldamento a meno di 2 °C e 73 Paesi hanno sottoscritto individualmente obiettivi di emissione per il 2020. L’accordo di Parigi del 2015, rispondendo alle crescenti preoccupazioni sugli impatti dei cambiamenti climatici, si è rafforzato il limite di temperatura collettiva a “ben al di sotto dei 2 °C” e ha convenuto “di proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C”. In base all’accordo di Parigi, 192 Paesi hanno sottoscritto individualmente obiettivi di emissione per il 2030.
Dal 2010 al 2014, le relazioni sul divario prevedevano la probabile differenza nel 2020 tra il risultato atteso delle promesse dei Paesi e i percorsi verso un riscaldamento massimo di soli 2 °C. Il rapporto del 2010 ha documentato un deficit del 14%. Dal 2015, i rapporti hanno previsto il deficit previsto nel 2030 tra gli impegni dei Paesi e i progressi verso il limite di aumento di 1,5 °C (deficit attuale del 55%) e di 2 °C (deficit attuale del 25%, più di quel 14% del 2010). Il rapporto di oggi esamina anche le politiche che i Paesi stanno attuando a livello nazionale. Se nel 2010 fosse iniziata una seria azione per il clima, i tagli necessari per raggiungere i livelli di emissione per i 2 °C sarebbero stati circa il 2% all’anno, in media, fino al 2030. Invece, le emissioni sono aumentate. Di conseguenza, i tagli richiesti dal 2020 sono ora più del 7% all’anno in media per 1,5 °C (vicino al 3% per 2 °C).
Anche la finestra temporale per dimezzare le emissioni globali si è drasticamente ridotta. Nel 2010 servivano 30 anni; oggi sono 10 per raggiungere 1,5 °C (25 per 2 °C). Sebbene molte relazioni, scienziati e responsabili politici continuino a discutere di aumenti di 2 °C, è necessario sottolineare che, nel 2018, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici ha riferito che il riscaldamento di oltre 1,5 °C sarebbe disastroso.
I Paesi non sono nemmeno sulla buona strada per raggiungere i loro impegni del 2015 a Parigi ora chiaramente inadeguati. Dei Paesi del G20, sette (Australia, Brasile, Canada, Giappone, Corea del Sud, Sudafrica e Stati Uniti) devono attuare la politica esistente o introdurre nuove misure. (Gli Stati Uniti hanno iniziato il processo di recesso dall’accordo di Parigi e partiranno a novembre). Russia e Turchia si sono posti obiettivi ambiziosi che possono raggiungere senza nuove politiche.
Cinquantatre Paesi si sono esplicitamente impegnati in un settore elettrico privo di emissioni. Altri sette Paesi lo hanno fatto implicitamente puntando su emissioni nette zero di gas serra. Insieme, rappresentano circa il 18% della produzione globale di elettricità. Ventuno paesi, 5 regioni e oltre 52 città si sono impegnate a rendere tutti i veicoli privi di emissioni. Esistono anche singoli esempi per i settori in cui è stato difficile raggiungere le emissioni zero, come l’industria pesante e l’aviazione. I giganti dell’acciaio ThyssenKrupp ad Essen, in Germania, e SSAB a Stoccolma puntano alla produzione di acciaio a emissioni zero entro il 2050 e il 2045, rispettivamente. La società di materiali da costruzione Heidelberg Cement, con sede in Germania, punta alla produzione di cemento a emissioni zero entro il 2050. Per l’aviazione, la Norvegia e la Scozia sperano di ridurre le emissioni di voli a corto raggio e nazionali entro il 2040.
Energie rinnovabili. I costi delle energie rinnovabili stanno diminuendo più rapidamente del previsto. Le energie rinnovabili sono attualmente la fonte più economica di nuova generazione di energia nella maggior parte del mondo. L’energia solare ed eolica sarà finanziariamente più competitiva rispetto alle centrali a carbone esistenti entro il prossimo anno. Queste riduzioni dei costi stanno aprendo possibilità per l’elettrificazione su larga scala a basse emissioni di carbonio.
Consumo di carbone. L’ascesa delle energie rinnovabili può – deve – facilitare un allontanamento dal carbone. Le economie emergenti che dipendono dal carbone, come la Cina e l’India, hanno iniziato a gestire i consumi adeguando il prezzo del carburante, limitandone i consumi, riducendo i piani per le nuove centrali a carbone e sostenendo le energie rinnovabili. Si deve fare molto di più e rapidamente, affrontando la povertà, l’accesso all’energia e l’urbanizzazione. Peraltro, le azioni per ridurre le emissioni di gas a effetto serra sono essenziali per il raggiungimento della sicurezza alimentare e della salute. Per esempio, le energie rinnovabili riducono l’inquinamento atmosferico e migliorano la salute e la sicurezza energetica rispetto ai combustibili fossili.
Purtroppo, pochi successi non bastano. Il divario è così grande che i governi, il settore privato e le comunità devono passare alla modalità crisi, emergenza, e rendere le loro promesse sul clima più ambiziose ed efficaci. “Altrimenti, gli obiettivi a lungo termine dell’accordo di Parigi sono fuori portata”, scrive l’analisi riportata da Nature. In pratica non sono sufficienti nemmeno i dieci anni che restano agli obiettivi del 2030. E a Glasgow di questo si dovrà discutere. Si è ridotto di due terzi il tempo per salvare il pianeta, per salvare l’umanità.