Cosa c’è di vero nell’ipotesi che vi possano essere sostanze “obesogene” alla base dell’incremento di peso sempre più diffuso nella popolazione adulta, ma pure infantile e adolescenziale?
Alcune sostanze chimiche molto diffuse nella nostra vita quotidiana, con le quali non soltanto entriamo in contatto ma addirittura involontariamente ingeriamo, possano avere la capacità di indurre sovrappeso e obesità e, per tale motivo, sono state definite “obesogene”.
Come riporta uno dei più recenti lavori al riguardo, pubblicato dalla rivista Biomolecules, si ritiene che il rapido e significativo aumento della prevalenza dell’obesità in tutto il mondo negli ultimi quarant’anni non sia attribuibile esclusivamente a fattori di rischio genetici o dello stile di vita, come diete ricche di calorie dal punto di vista nutrizionale, stile di vita sedentario o invecchiamento.
Nuove prove hanno dimostrato che l’alterazione del sistema endocrino associato all’esposizione umana a sostanze chimiche artificiali potrebbero anche contribuire all’epidemia di obesità.
La cosa è ancora più preoccupante e grave se pensiamo che tali alterazioni endocrine non colpirebbero soltanto il soggetto che entra in contatto con le sostanze ritenute obesogene ma possono addirittura trasmettersi ai propri figli.
“Si suppone che gli obesogeni”, spiega Biomolecules, “in quanto sostanze chimiche che alterano il sistema endocrino ambientale, abbiano avuto un impatto sulla prevalenza dell’aumento dell’obesità in tutto il mondo negli ultimi quarant’anni. Queste sostanze chimiche sono probabilmente in grado di contribuire non solo allo sviluppo dell’obesità e dei disturbi metabolici negli individui, ma anche nella loro progenie, avendo la capacità di riprogrammare epigeneticamente i punti di regolazione geneticamente ereditati per il controllo del peso corporeo e della composizione corporea durante i periodi critici dello sviluppo, come il feto, i primi anni di vita e la pubertà”.
Si tratta quindi di un problema reale e grave e per sapere di più abbiamo chiesto lumi a quattro tra i maggiori specialisti italiani nella ricerca e nella cura dell’obesità di Auxologico Irccs, Fondazione per la cura e la ricerca biomedica che da oltre mezzo secolo si occupa di tale problematica, sia nei giovani che negli adulti, redigendo tra l’altro anche un periodico Rapporto sull’obesità in Italia giunto alla nona edizione con il titolo di “Ricerca, clinica e terapia: lo stato dell’arte”.
Cosa si intende per “sostanze obesogene” è perché potrebbero danneggiare la nostra salute?
Prof. Massimo Scacchi, Responsabile della UO di Medicina Generale ad indirizzo Endocrino-Metabolico e Direttore del Laboratorio di Ricerche Metaboliche di Auxologico Piancavallo; Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità, Università degli Studi di Milano.
L’ipotesi che una esposizione prenatale o nei primi anni di vita a sostanze obesogene possa determinare accumulo di tessuto adiposo ed incremento ponderale è stata formulata nel 2006 da Grun e Blumberg.
Studi in modelli animali hanno dimostrato che alcuni inquinanti ambientali (i cosiddetti interferenti endocrini/obesogeni) sono in grado di favorire la differenziazione di cellule staminali in adipociti, nonché di aumentare il deposito di lipidi in ciascuna cellula adiposa.
Sono inoltre in grado di alterare i processi endocrini che regolano lo sviluppo del tessuto adiposo, ma anche fame e sazietà, scelta degli alimenti, spesa energetica a riposo e bilancio energetico.
Studi prospettici nell’uomo hanno dimostrato l’associazione fra elevati livelli circolanti di DDT durante la gravidanza e sviluppo di obesità nella prole, mentre altri studi hanno fallito la dimostrazione di nessi epidemiologici.
Gli ftalati, presenti nella plastica, sono noti interferenti endocrini, con i loro effetti debolmente estrogenici e anti-androgenici.
Inoltre, sono state riscontrate correlazioni fra elevate concentrazioni di ftalati urinari da un lato e marker di malattia cardiometabolica e obesità dall’altro.
D’altro canto, non tutti gli studi che hanno valutato esposizione prenatale agli ftalati e BMI in età pediatrica hanno mostrato valide correlazioni.
L’esposizione di donne incinte all’atrazina, erbicida grandemente utilizzato negli USA e noto interferente endocrino, aumenta il loro rischio di sviluppare diabete gestazionale. In effetti, atrazina è in grado di danneggiare la funzione mitocondriale, inducendo insulino-resistenza e favorendo l’incremento ponderale.
La tributiltina è ampiamente utilizzata nelle pitture per natanti, da cui può essere rilasciata nelle acque. Altre sostanze simili sono presenti nella plastica e quindi possono considerarsi ubiquitarie. Svolgono azioni come carcinogeni, interferenti endocrini e obesogeni.
L’effetto favorente la differenziazione di preadipociti in adipociti esercitato dalla tributiltina è ben documentato; tale molecola è inoltre considerato un interferente nei confronti dell’attività tiroidea. Fra gli organofosfati si annoverano insetticidi, erbicidi e antielmintici.
La prolungata esposizione a tali sostanze è in grado di alterare il microbioma intestinale dei topi, favorendo incremento ponderale e insulino-resistenza.
Per quanto riguarda il glutammato monosodico, impiegato dall’industria alimentare per la preparazione di patatine, snack salati, cibi congelati e salse, studi su ampie popolazioni cinesi hanno dimostrato un rischio di sviluppo di sovrappeso 1.33-2.75 volte maggiore nei forti consumatori di tale sostanza.
Uno studio tailandese ha stimato un aumento di 1.16 volte del rischio di sovrappeso per ogni aumento di 1 g dell’introito di glutammato monosodico.
Si ipotizza che tale sostanza possa ridurre la secrezione di GLP-1, incretina coinvolta non solo nel rilascio di insulina ma anche nell’induzione di sazietà.
Un’altra sostanza in grado di ridurre la secrezione di GLP-1 e di indurre incremento ponderale e lo psicofarmaco clozapina.
Inoltre, studi nell’uomo hanno dimostrato una associazione fra biossido di azoto, uno dei gas che maggiormente contribuiscono all’inquinamento dell’aria, e livelli circolanti di lipidi nei soggetti obesi.
Nell’animale da esperimento l’esposizione precoce alle polveri sottili incrementa obesità viscerale, insulino-resistenza ed infiammazione.
Riassumendo, appaiono necessari ulteriori studi epidemiologici e sperimentali per stabilire in modo inequivocabile l’entità del contributo dei cosiddetti obesogeni nello sviluppo del sovrappeso nell’uomo, con particolare attenzione alla domanda: è possibile che nel periodo dell’infanzia l’esposizione a interferenti ambientali giochi un ruolo rilevante nell’epidemia di sovrappeso/obesità a cui stiamo assistendo?
Tra le principali sostanze imputate come “obesogene” sembra farla da padrone il Bisfenolo: di cosa si tratta?
Prof.ssa Simona Bertoli, Professore ordinario di scienze dietetiche applicate presso il Dipartimento di scienze degli alimenti la nutrizione e l’ambiente, Università degli Studi di Milano e Direttore Centro Ambulatoriale Obesità di Auxologico.
Il Bisfenolo A (BPA), è un contaminante ambientale ubiquitario responsabile di interferenza endocrina associata ad un aumentato rischio di malattie cronico degenerative ed in particolare di obesità e diabete.
In particolare, il BPA interagisce con i recettori dell’estradiolo, il più importante tra gli estrogeni umani che a intervenire nelle funzioni sessuali, influenza la funzionalità di vari organi e tessuti.
L’esposizione al BPA in concentrazioni inadeguate e durante una finestra temporale impropria può influenzare lo sviluppo e la funzione di più sistemi di organi, compreso il controllo dell’equilibrio energetico e dell’omeostasi del glucosio.
Il BPA è entrato nella nostra “dieta” a partire dagli anni 50 quando i chimici scoprirono che le molecole di BPA potevano essere polimerizzate per produrre plastica policarbonata, che divenne presto un composto di base nella produzione della resina che riveste le lattine per alimenti e bevande e utilizzata nei contenitori degli alimenti.
Ad oggi, le principali fonti dietetiche di BPA sono alimenti in scatola o pronti all’uso e bevande in lattine, che durante la conservazione cedono il BPA all’alimento.
Nell’aprile 2023 l’EFSA (l’autorità europea per la sicurezza alimentare) ha pubblicato una valutazione sulla sicurezza del BPA, riducendo significativamente la soglia di assunzione giornaliera tollerabile (DGT) rispetto a quanto era stato precedentemente stabilito.
Precedenti studi hanno mostrato che più del 90% della popolazione generale è esposta, mostrando concentrazioni misurabili di BPA e essendo lipofilo, può essere immagazzinato anche tessuto adiposo. I livelli di esposizione sono molto variabili in relazione alle aree geografiche e alla qualità dietetica e l’esposizione media supera la nuova DGT in tutte le fasce di età, dando così adito a preoccupazioni per la salute.
Al momento solo gli alimenti destinati alla prima infanzia (oltre a biberon e succhietti ecc), devono, per legge, essere privi “BPA free”.
In una revisione della letteratura condotta dai ricercatori di Irccs Auxologico ha evidenziato che i livelli plasmatici di BPA sono risultati correlati con il grado di obesità e con la distribuzione addominale del grasso, condizione che aumenta fortemente il rischio di sviluppare diabete e malattie cardiovascolari
Tutti i soggetti possono subire danni da tali sostanze chimiche o c’è una variabilità individuale, genetica?
Dott.ssa Amelia Brunani, Direttore UO Medicina Riabilitativa di Auxologico Piancavallo
La relazione tra fattori ambientali e genetica da tempo è stata dimostrata influire sullo sviluppo di diverse patologie croniche tra cui l’obesità.
La scienza che studia tale relazione è l’epigenetica che ha avuto negli ultimi anni un notevole sviluppo. Tra i fattori ambientali quali abitudini alimentari o stili di vita, maggior attenzione è stata rivolta anche all’esposizione a diverse sostanze con cui veniamo a contatto giornalmente.
Tutti questi fattori, per i loro effetti vengono definiti “obesogeni” ed in particolare le sostanze in esame vengono riconosciute come “interferenti endocrini” perché interferiscono sul normale metabolismo energetico e sulla produzione di tessuto adiposo.
Uno dei loro meccanismi d’azione, come già descritto, è quello di modificare l’espressione di alcuni geni aumentando le condizioni cliniche (es. insulino resistenza o la produzione di enzimi con effetti metabolici) che di per sé costituiscono fattori di rischio per lo sviluppo di obesità.
La presenza di alcuni polimorfismi (varianti genetiche) degli stessi geni possono produrre una diversa risposta all’esposizione delle sostanze tossiche (modulandone l’effetto).
Inoltre, a livello periferico tali sostanze tendono ad accumularsi a livello del tessuto adiposo, incrementano i fattori di crescita del tessuto adiposo e vengono rilasciate in circolo durante la perdita di peso aumentandone la tossicità.
Da un punto di vista clinico rimane comunque difficile stabilire gli effetti a livello molecolare e l’influenza sullo stato di salute derivante dall’esposizione delle sostanze in oggetto poiché le risposte appaiono individuali più che di popolazione.
Esistono ancora diverse variabili che riguardano i tempi (pre-natale, infanzia o in età adulta; continui o stagionali), i dosaggi (eccessivi delle sostanze singole o delle miscele di sostanze) e le modalità di esposizione (da contatto, con gli alimenti o aerea).
Da studi epigenetici vengono altre informazioni sulla possibilità che gli effetti siano centrali, ad esempio sulla produzione di neurotrasmettitori che stimolano l’assunzione di cibo a livello cerebrale, con effetti di disregolazione del metabolismo energetico.
Alcuni studi evidenziano anche un effetto maggior nel sesso femminile per un’interferenza sulla espressione di geni coinvolti nella produzione di estrogeni.
Un filone di ricerca riguarda poi la possibilità di trasmissione di un certo tipo di risposta epigenetica tra madre e figlio senza modifica del gene (DNA).
L’obesità rimane ancora una malattia complessa e multifattoriale caratterizzata da un’intricata interazione di diversi fattori; l’identificazione di tali fattori in un individuo con obesità (definita fenotipizzazione) potrebbe aiutare a riconoscere i fattori di rischio.
Se i dati a favore di un effetto da parte degli “interferenti endocrini” sulla predisposizione genetica all’obesità esistono negli studi soprattutto su modelli animali, dobbiamo anche segnalare che, secondo i dati della FAO, la mappa mondiale dei Paesi con maggior inquinanti ambientali (Cina e India) di fatto non coincide con quella dell’obesità (America), a testimoniare un legame non molto stretto.
I fattori ambientali quali lo stile di vita (alimentazione e attività fisica sembrano ancora avere un peso maggiore nella prevenzione e controllo dell’obesità).
Cosa si può fare e cosa si sta facendo per ovviare al problema di queste sostanze chimiche dannose per la nostra salute?
Prof. Alberto Battezzati, Professore ordinario, Dipartimento di Scienze per gli Alimenti, la Nutrizione e l’Ambiente dell’Università di Milano; Direttore UO Nutrizione Clinica – Auxologico Città Studi Icans
L’attuale epidemia di obesità e malattie metaboliche associate si verifica perché un grande numero di soggetti predisposti è attualmente “immerso” in un ambiente obesogenico in cui abbondano gli interferenti endocrini.
Si può limitare l’esposizione a queste sostanze attraverso interventi diretti all’ambiente e le modificazioni dei comportamenti individuali. Gli interventi diretti all’ambiente sono fondamentali perché, se si prendono in considerazione gli alimenti, ci sono molti modi in cui essi possono essere contaminati.
I contenitori ed i materiali con cui un alimento viene a contatto durante le fasi di produzione, conservazione e distribuzione sono passaggi critici che il consumatore non può realmente controllare.
L’EFSA si è mossa in questa direzione in maniera estremamente decisa perché ha recentemente pubblicato un parere scientifico che stabilisce un nuovo limite di esposizione giornaliera al BPA, uno dei più importanti interferenti endocrini, che è 20000 inferiore a quanto aveva stabilito solo nel 2015.
Ad oggi l’esposizione della popolazione europea risulta superiore a questo limite praticamente in tutte le fasce di età. La Commissione Europea e gli Stati Membri dovranno ora adottare nuove forme di controllo sugli alimenti e provvedimenti che permettano di ricondurre l’esposizione entro questi limiti.
In generale, lo sforzo di accorciare le filiere alimentari, ridurre l’uso dei pesticidi e minimizzare le procedure di processazione degli alimenti va visto con favore perché oltre a migliorare la sostenibilità ambientale può ridurne la contaminazione.
È però importante anche modificare i comportamenti individuali, ricordando che gli interferenti endocrini come il BPA possono contribuire all’obesità, e che tendono ad accumularsi proprio nel tessuto adiposo.
Già dal 2011 i prodotti per l’infanzia devono essere privi di BPA. Tuttavia è possibile la trasmissione del BPA dalla madre al feto per cui anche la donna gravida deve esercitare particolare attenzione.
Ci si può chiedere quali scelte alimentari prediligere per minimizzare l’esposizione al BPA. I cibi inscatolati e le bevande in lattina e bottiglia di plastica sono quelli maggiormente a rischio di contaminazione.
Il trasferimento del BPA a cibi e bevande è maggiore per gli alimenti grassi, acidi, conservati più a lungo ed esposti a temperature più elevate durante la conservazione. L’Istituto Superiore di Sanità pubblica un decalogo per limitare l’esposizione a queste sostanze, con benefici per la propria salute e quella dell’ambiente:
- limitare l’uso di plastica monouso (posate, bicchieri, piatti, contenitori)
- ridurre, ove possibile, l’uso di prodotti in plastica PVC (cloruro di polivinile), considerando eventuali alternative
- ridurre il tempo trascorso a giocare con giochi in plastica, inclusi i giochi elettronici
- limitare il consumo di cibi pronti (takeaway) se preparati e distribuiti in contenitori di plastica
- evitare di utilizzare il microonde con alimenti già conservati in contenitori di plastica e con contenitori non appropriati
- una volta scaldati consumare gli alimenti in contenitori diversi dalla plastica
- limitare il consumo di acqua confezionata in bottiglie di plastica
- limitare l’uso di pellicola per alimenti e comunque utilizzare quella idonea al contatto
- promuovere attività sportiva per i bambini
- promuovere l’attività fisica negli adulti, sia in palestra che all’aperto prediligendo aree verdi
- https://www.iss.it/-/dieci-pratici-consigli-per-ridurre-l-esposizione-a-plastificanti-per-bambini-e-adulti
In generale, le soluzioni tecniche prive di BPA per contenitori di alimenti inclusi quelli inscatolati sono già disponibili, ma non è detto che siano più economiche.
Anche un’alimentazione più sana, che utilizzi alimenti non ultraprocessati e più controllati potrebbe risultare più costosa di un’alimentazione basata su alimenti altamente processati, conservati a lungo, generalmente ad alto contenuto calorico e basso valore nutrizionale.
Un tema cui fare molta attenzione e molto sensibile, considerando la spesa per una sana alimentazione un investimento in salute e costi sanitari a lungo termine.
In linea di massima una sana alimentazione ricca di frutta e verdura ed alimenti poco processati non solo permette di trattarle ma anche di ridurre l’esposizione agli interferenti che le favoriscono.