La prestigiosa rivista New England Journal of Medicine ha chiesto a Robin Foà (Professore Emerito di Ematologia della Sapienza) di descrivere i risultati raggiunti in questo ventennio.
Sono passati quasi vent’anni da quando in Italia fu sperimentata per la prima volta una sostanza, l’imatinib, appartenente a una nuova classe di farmaci antitumorali mirati, in pazienti con leucemia acuta linfoblastica (LAL), associata a un’alterazione del cromosoma Philadelphia (LAL Ph+) per il trattamento iniziale di questi pazienti.
Poiché si trattava di un approccio terapeutico rivoluzionario, furono arruolati per questa sperimentazione solo pazienti anziani, di oltre 60 anni, per molti dei quali venivano offerte esclusivamente terapie palliative.
Dopo essere stati trattati con una combinazione di imatinib, inibitore delle tirosin-chinasi (TKI) e steroide, tutti i pazienti ottennero una remissione della malattia.
Da allora questa strategia terapeutica iniziale basata solo su un TKI (più lo steroide) ha permesso di ottenere percentuali di risposta nel 94-100% dei pazienti adulti di tutte le età con LAL Ph+, senza ricorrere a chemioterapia sistemica (solo profilassi del sistema nervoso centrale) e con bassissima tossicità per i pazienti.
Negli anni la ricerca del gruppo coordinato dal Robin Foà (Professore Emerito di Ematologia della Sapienza) è andata avanti con l’obiettivo di arrivare alla guarigione dei pazienti affetti da questa patologia ematologica.
Per questo motivo la prestigiosa rivista New England Journal of Medicine ha chiesto a Foà di descrivere i risultati più importanti raggiunti e pubblicati in questo ventennio sulla LAL Ph+ e come sia cambiata la storia naturale di questa malattia, una volta considerata la neoplasia ematologica più infausta.
La review “Philadelphia Chromosome–Positive Acute Lymphoblastic Leukemia”, pubblicata il 23 giugno scorso, ripercorre appunto le tappe fondamentali di questo successo tutto italiano della ricerca medica.
Dopo la prima sperimentazione dell’imatinib in pazienti con LAL Ph+, si è progressivamente compreso che, per evitare una recidiva di malattia e migliorare le possibilità di guarigione, non bastasse una remissione ematologica, ma fosse essenziale ottenere uno stato di negatività della malattia residua minima (MRD, minimal residual disease).
Nel 2016 iniziò il primo studio multicentrico italiano per pazienti adulti con LAL Ph+ (senza limiti di età) nel quale fu prevista l’aggiunta al TKI del blinatumomab, primo farmaco nella classe degli anticorpi bi-specifici, che agiscono stimolando una doppia reazione: da un lato il blinatumomab si lega alla proteina espressa dalle cellule leucemiche e dall’altro attiva nell’organismo una risposta immunologia.
Questo approccio chemio-free, basato sulla combinazione di una terapia iniziale mirata su un TKI (dasatinib) e steroide (di induzione), seguita da una strategia immunoterapica (blinatumomab, che attiva i linfociti T del paziente) come terapia di consolidamento, ha portato a remissioni nel 98% dei pazienti e, soprattutto, a remissioni molecolari fino all’80% dei casi.
I risultati dello studio furono pubblicati il 22 ottobre 2020 sempre sul New England Journal of Medicine.
Nella review viene discusso l’uso negli anni dei TKI di seconda e terza generazione, da soli o insieme a dosi ridotte di chemioterapia, e valutato il ruolo che oggi ha il trapianto allogenico di cellule staminali, alla luce dei risultati ottenuti dalla combinazione della targeted therapy con l’immunoterapia.
Nella review viene trattata anche la questione della “Accessibility and Sustainability”. Quanti pazienti hanno accesso a tutto questo? In termini di test di laboratorio e di accesso ai farmaci? Ancor oggi in molte parti del mondo la disponibilità di TKI è limitata.
Di fatto, troppo spesso l’accesso ai laboratori per i test necessari e alle terapie è possibile solo per chi può permetterselo.