Servono spazi dedicati negli ospedali e ripartire con gli screening.
Dall’inizio della pandemia, il 20% dei malati oncologici ha evitato i trattamenti per timore del contagio nelle strutture. Francesco Cognetti: “Va messo in atto ogni sforzo perché l’assistenza continui in totale sicurezza. Riprogrammiamo la prevenzione secondaria, senza i controlli, troppe diagnosi in fase avanzata. Inoltre bisogna riprendere l’attività chirurgica, che in oncologia è urgente e rivedere le strutture ospedaliere per sostenere l’impatto del follow-up”.
Un milione e 190mila pazienti colpiti da tumore in Italia sono in trattamento attivo, cioè devono essere sottoposti con regolarità a chemioterapia, radioterapia, immunoterapia e alle terapie mirate (farmaci a bersaglio molecolare). Per questi malati è fondamentale seguire le cure in ospedale in totale sicurezza, senza esporsi al rischio di contagio da coronavirus.
Ed è indispensabile istituire e identificare, all’interno delle strutture, percorsi e spazi (ad esempio sale di attesa) dedicati alle persone che affrontano queste cure e che non possono più rimandarle, dopo la fase acuta dell’emergenza causata dal Covid-19. Non solo. Tutti gli operatori sanitari che interagiscono con i pazienti oncologici dovrebbero essere anzitutto istruiti sulle misure di distanziamento sociale e di prevenzione dell’infezione, incluso l’uso costante di mascherine, ed essere tempestivamente sottoposti a tamponi se esposti a casi o alla comparsa di sintomi.
È l’appello di Fondazione Insieme contro il Cancro che oggi, in una conferenza stampa virtuale, chiede alle Istituzioni di adottare quanto prima provvedimenti per consentire la ripresa regolare dell’attività di assistenza oncologica e dei programmi di screening.
“La situazione di emergenza ha costretto a rinviare le visite di controllo, le terapie anticancro non urgenti e gli screening – spiega il prof. Francesco Cognetti, Presidente Fondazione Insieme contro il Cancro e Direttore Oncologia Medica Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma -. E sono stati rimandati o dilazionati i trattamenti nei pazienti fragili che avevano poche possibilità di giovarsi della chemioterapia, con il rischio di sviluppare tossicità ed effetti collaterali e a maggior rischio di contrarre l’infezione anche in forma più grave e potenzialmente letale. Sono stati posticipati anche gli interventi chirurgici più complessi, perché le terapie intensive erano impegnate nell’assistenza dei malati gravi contagiati dal coronavirus. Al netto di queste situazioni, dall’inizio della pandemia, circa il 20% dei pazienti oncologici, che avrebbe dovuto essere sottoposto a trattamenti utili, non si è presentato in ospedale”.
“Oggi – continua il prof. Cognetti – la situazione sta lentamente volgendo alla normalità e tutte le persone colpite da cancro devono tornare quanto prima a curarsi, perché il ritardo nell’adesione alle terapie può determinare un avanzamento della malattia, compromettendo così le possibilità di sopravvivenza a lungo termine. Nel nostro Paese, il 60% dei pazienti oncologici è vivo e senza segni di malattia a 5 anni dalla diagnosi, percentuale che supera il 90% in alcune neoplasie molto frequenti come il carcinoma mammario, soprattutto se individuate in fase iniziale. Non possiamo vanificare gli importanti risultati ottenuti finora, grazie alle terapie innovative e agli screening. In Italia, nel 2019, le nuove diagnosi di cancro sono state 371mila, circa 1.000 al giorno, grazie anche alla prevenzione secondaria. Vi è il rischio concreto che l’adesione dei cittadini ai programmi di screening diminuisca, per il timore di contrarre il virus all’interno degli ospedali. E, se questa situazione dovesse protrarsi a lungo, si potrebbe anche assistere fra qualche tempo ad un aumento della mortalità per alcuni tumori”.
“Il nostro Paese sta affrontando una crisi sanitaria di proporzioni enormi, che ha messo a dura prova le sue risorse umane e strutturali – afferma il prof. Giordano Beretta, Presidente Nazionale AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) e Responsabile Oncologia Medica Humanitas Gavazzeni di Bergamo -. In particolare, a Bergamo, l’emergenza ha assunto le dimensioni di un vero e proprio tsunami. All’Humanitas Gavazzeni del capoluogo lombardo, le sale operatorie sono state convertite in terapie intensive. È stato creato un unico reparto Covid, che ha occupato tutti i piani della struttura. Nel pronto soccorso, sono stati istituiti fino a 40 posti di osservazione breve, con pazienti in ventilazione assistita. Nel Day Hospital oncologico, per tutelare i malati, abbiamo attivato un doppio triage, con un contatto telefonico con il paziente il giorno prima della terapia programmata e un successivo controllo al momento dell’accesso in Day Hospital, in modo che entrassero solo persone che non presentavano sintomi correlati al coronavirus. Gli oncologi sono stati impiegati nel grande reparto di ‘medicina interna-malattie infettive’ creato ad hoc, dove hanno lavorato tutti i clinici dell’ospedale, inclusi i chirurghi. Solo nel mese di marzo, nella struttura, sono stati osservati almeno 1.000 casi di Covid-19, di cui la metà sono stati ricoverati. Abbiamo creato nuovi posti letto, visto che l’ospedale, in condizioni normali, ne ospita 213. Nell’Oncologia hanno continuato a lavorare due medici non impegnati nei reparti Covid. Molti controlli di follow up sono stati eseguiti via telefono, alleggerendo così i carichi di lavoro. Anche a Bergamo, l’attività chirurgica non ha potuto proseguire, con l’eccezione delle emergenze, e la maggioranza dei pazienti che necessitavano di interventi in tempi brevi è stata indirizzata ai centri Hub indicati dalla Regione Lombardia. Le criticità maggiori legate all’emergenza ora sono superate, per questo è necessario che tutti i pazienti tornino in condizioni di sicurezza negli ospedali”.
Parliamo di screening. “Al momento lo stop limitato a due mesi non ha un impatto significativo, ma bisogna valutare bene il rapporto rischi-benefici: in alcuni casi, come il tumore del colon retto, lo screening è fondamentale”.
“In Italia, vivono circa 3 milioni e 400mila cittadini dopo la diagnosi di cancro, un milione è considerato guarito ed ha la stessa aspettativa di vita della popolazione generale – afferma il prof. Cognetti -. Ma a oltre un milione servono cure costanti. I pazienti oncologici in trattamento, proprio perché caratterizzati da condizioni di immunosoppressione, sono particolarmente a rischio di contrarre il virus. Per i pazienti oncologici, il rischio di ospedalizzazione per coronavirus e altri virus respiratori è superiore di circa 4 volte rispetto a malati non oncologici di età comparabili e, secondo i dati prodotti dall’Istituto Superiore di Sanità, il 17% delle persone che muoiono a seguito di complicanze del Covid-19 sono pazienti oncologici”. “I cittadini colpiti dal cancro affrontano oggi una doppia sfida: resistere all’infezione da Covid-19 e combattere la patologia oncologica – continua il prof. Cognetti -. È difficile prevedere la durata di questa emergenza e le sue ricadute sul sistema sanitario nazionale. Ma va messo in atto ogni sforzo per garantire una ripresa regolare delle attività di cura, di follow up e di screening, a partire dall’attivazione di percorsi dedicati all’interno degli ospedali. Anche se i dati degli studi scientifici a oggi sono limitati, sembra che i pazienti con patologie oncologiche siano, da un lato, esposti a maggior rischio di essere contagiati dal virus, dall’altro di sviluppare un andamento più severo dell’infezione. Sono particolarmente vulnerabili le persone sottoposte a chemioterapia, a radioterapia intensiva o che hanno subito trapianti di midollo osseo o di cellule staminali negli ultimi sei mesi”.
“L’Italia ha una spesa sanitaria pro-capite inferiore a Germania e Francia, con cui ci dobbiamo confrontare. E, in questo quadro di debolezza, siamo comunque riusciti a dare una risposta eccezionale: con mezzi limitati, il personale medico ha reagito all’emergenza Covid-19, mettendo in campo tutte le sue competenze – spiega il prof. Walter Ricciardi, Membro del Consiglio Esecutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), presidente del ‘Mission Board for Cancer’ dell’Unione Europea e consigliere del Ministero della Salute per l’emergenza Covid-19 -. È arrivato il momento di avviare una campagna di tamponamento più mirata, sia nei confronti dei pazienti, cioè eseguendo i tamponi nel momento in cui emerge una sintomatologia, anche lieve, e poi tracciandoli, ma anche e soprattutto nei confronti del personale sanitario in prima linea, perché è un capitale umano preziosissimo che dobbiamo preservare. Non possiamo permetterci che vada perduto”.
“I medici hanno svolto un grande lavoro e le conoscenze scientifiche sul coronavirus si sono evolute con notevole rapidità – conclude il prof. Giuseppe Ippolito, Direttore Scientifico Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani IRCCS di Roma -. Si stanno riducendo sia i nuovi casi, grazie alle misure di distanziamento sociale, che i ricoveri in terapia intensiva. La strada per aprire la cosiddetta fase 2 passerà da una serie di interventi che vanno dalla disponibilità di tecniche diagnostiche standardizzate ed utilizzabili su larga scala per la diagnosi delle infezioni, alla riorganizzazione dei percorsi assistenziali, alla gestione extraospedaliera delle cure, alla valutazione degli accessi ai servizi sanitari con attenta considerazione delle priorità, tenendo anche conto dei potenziali benefici attesi. E servono immediati investimenti nel servizio sanitario nazionale, che negli ultimi decenni è stato fortemente depotenziato, privandolo di una rete del territorio. Per gestire le malattie infettive, è indispensabile un modello di sanità centralistica”.
Che aggiunge: “per sconfiggere il nuovo coronavirus dobbiamo aspettare i vaccini; infatti la strada farmacologica si è dimostrata inefficace. Si sono fatti annunci su farmaci miracolosi, ma che alla prova dei fatti si sono mostrati non risolutivi; se fossero stati efficaci quanto annunciato a quest’ora avrebbero fatto effetto, invece gli studi non riportano alcun clamoroso cambiamento nei pazienti in terapia. Si è trattato in molti casi di proclamazione da parte di persone che definirei degli ‘sciamani’ della medicina. L’Europa è invece fiduciosa nei due vaccini in sviluppo dall?NIH americana”.