Gli operatori sanitari stanno facendo miracoli, ma mancano strutture e ventilatori.
Il Covid-19 sta portando al collasso i governi, le economie, le autorità sanitarie di tutto il pianeta. Ma sotto osservazione speciale in questo momento è l’Italia, anzi la Lombardia, laboratorio delle strategie anti-pandemia. E la Lombardia, che peraltro vanta una sanità tra le migliori al mondo, sta per alzare bandiera bianca. È allo stremo delle forze, con quasi 12.000 positivi (1.865 in più in un solo giorno), 5.000 pazienti ricoverati di cui 750 in terapia intensiva. E i morti sono ormai più di mille.
Sull’Eco di Bergamo ieri si contavano undici pagine di necrologi e il Comune di Milano ha messo a disposizione cento posti all’obitorio e ha cambiato il regolamento riducendo da trenta a cinque i giorni per decidere dove seppellire i defunti. Un’emergenza che ha spinto il governatore Attilio Fontana a una scelta drastica: reclutare Guido Bertolaso (con cui in passato non è stato proprio in sintonia) come «consulente» per reperire «sul mercato internazionale monitor e respiratori» destinati a un nuovo ospedale da costruire alla Fiera e dedicato per ora alla terapia intensiva con 500 posti letto super attrezzati. Il tempo stringe e anche se potrebbe esserci una pausa tra circa un mese potrebbe sempre Covid-19 ricomparire, forse mutato, il prossimo autunno. Meglio non abbassare la guardia, ma soprattutto organizzarsi al meglio ora.
Perché i presidi di tutta la Regione, avverte l’assessore al Welfare Giulio Gallera, «sono vicini al punto di non ritorno. Abbiamo pochissimi posti liberi nelle terapie intensive, ormai siamo nell’ordine di 15-20 a disposizione. Se ogni giorno arrivano 85 persone in terapia intensiva e ne escono due o tre, è evidente che tutto questo non è sufficiente». Non ci sono ambulanze abbastanza per smistare i pazienti tra i vari ospedali e soprattutto mancano i medici, tanto che la Regione ha lanciato una campagna di assunzioni internazionali. «Avremo personale dal Venezuela, dalla Cina, da Cuba, a cui daremo ovviamente anche una casa. Chiediamo solo che siano iscritti all’albo nel Paese di provenienza».
L’unico dato positivo rispetto a un quadro sempre più preoccupante arriva a livello nazionale: a quasi un mese dall’inizio dell’emergenza il numero dei guariti dal coronavirus fa registrare l’incremento più alto, 527 persone in un solo giorno, il 36,7% in più rispetto a venerdì scorso. Comunque, il cuscinetto di posti liberi in terapia intensiva per i malati di Covid-19, circa 15 posti, «resta quello, ma soprattutto restano i miracoli che i nostri operatori riescono a realizzare. La capacità che hanno dimostrato in queste due settimane di recuperare più di 300 posti letto in rianimazione dal nulla. Spero che riescano ancora per qualche giorno», auspica il governatore Fontana.
E per chi ha criticato negli anni scorsi la politica dei tagli alla sanità, Covid-19 è come un nodo che arriva al pettine. Perché i tagli sono utili se scientifici e non se politici. Se servono a eliminare i mediocri e a rilanciare i meritevoli, se operati in base a una programmazione da Paese moderno e non burocraticamente medioevale. Perché ora banco di prova è una Regione “forte” in sanità, ma chiediamoci che cosa potrebbe accadere in Regioni del Sud, da dove normalmente si migra al Nord per farsi curare e che invece ora hanno visto una migrazione di corregionali dal Nord, dalle “zone rosse”, infischiandosene letteralmente di divieti e quant’altro. Migliaia di trasferiti in Puglia, Calabria, Sicilia. Se saranno “untori” lo si vedrà nei prossimi giorni.
La terapia intensiva torna di interesse?
Certo. Mentre la Regione Lombardia aspetta solo un via libera dalla Protezione Civile per costruire un ospedale per terapia intensiva, due privati accreditati stanno per aprire strutture analoghe all’esterno degli edifici principali: il San Raffaele a Milano, il Policlinico Gemelli a Roma che tra 72 ore sarà già operativo.
Il mondo ci guarda?
Sì. Ieri il Lancet ha pubblicato: l’Italia ha bisogno di 4.000 posti letto in terapia intensiva entro le prossime quattro settimane. Emerge da uno studio condotto dall’Istituto Mario Negri in collaborazione con l’università di Bergamo, che prevede il picco del contagio da coronavirus entro le prossime tre settimane al massimo. Il termine per avere a disposizione altri quattromila posti in terapia intensiva.
E il governo? A livello nazionale che cosa è previsto?
Per far fronte all’emergenza Covid-19, il governo sta predisponendo un piano per aumentare del 50% il numero dei posti letto in terapia intensiva, che nel 2017 (ultimo dato disponibile) in Italia erano circa 5.100. In generale, il numero dei posti letto, tra strutture pubbliche e accreditate, era di oltre 192 mila, in calo però del 30% rispetto al 2000. Da questo punto di vista siamo attualmente sotto la media Ue.
Quanti posti letto ci sono negli ospedali italiani? E nel resto d’Europa?
A settembre 2019 il Ministero della Salute ha pubblicato l’“Annuario statistico del servizio sanitario nazionale”, che contiene i dati più aggiornati sull’assetto organizzativo e sulle attività della sanità in Italia. Nel 2017, quando le strutture di ricovero pubbliche erano 518 e quelle private accreditate 482, in Italia c’erano 151.646 posti letto per degenza ordinaria in ospedali pubblici (2,5 ogni 1.000 abitanti) e 40.458 in quelli privati (0,7 ogni 1.000 abitanti), per un totale di oltre 192 mila posti letto (3,2 ogni 1.000 abitanti). In base ai dati Eurostat e Ocse, tra il 2000 e il 2017 (ultimo anno disponibile) nel nostro Paese il numero dei posti letto pro capite negli ospedali è calato di circa il 30 per cento, arrivando appunto a 3,2 ogni 1.000 abitanti, mentre la media dell’Unione europea è vicina a 5 ogni 1.000 abitanti.
Ma la nostra è una Sanità a conduzione regionale. Ed esiste una notevole variabilità di numeri a seconda delle Regioni prese in esame. Qualche esempio?
Sempre secondo i dati del Ministero della Salute, nel 2017 i posti letto nelle strutture pubbliche andavano dai 3,9 per 1.000 abitanti del Molise (prima in classifica) ai 2,0 per 1.000 abitanti della Calabria (ultima in classifica). La graduatoria cambia invece se si prendono in considerazione i posti letto nelle strutture private accreditate. Qui, nel 2017, erano 1,1 per 1.000 abitanti nella Provincia autonoma di Trento e in Campania (prime in classifica) a 0,1 per 1.000 abitanti in Basilicata (ultima in classifica). Comunque, la media tra pubblico e privato è appunto di 3,2 ogni mille abitanti.
Di questi, quanti i posti letto “specializzati” tra day hospital, day surgery e terapia intensiva?
I posti letto in day hospital (ricoveri diurni di alcune ore) nelle strutture pubbliche erano 11.672, mentre in quelle accreditate 1.378. Quelli in day surgery (ricoveri per interventi chirurgici con degenza solo diurna) erano invece 6.660 nel pubblico e 1.855 nelle strutture accreditate. I posti letto, sommando pubblico e privato, destinati alla terapia intensiva erano due anni fa 5.090, circa 8,42 per 100.000 abitanti.
Alla luce di questi numeri come esce l’Italia da un confronto con il resto dell’Ue?
Secondo i dati Eurostat più aggiornati, nel 2017 i poco più di 192 mila posti letto disponibili negli ospedali italiani corrispondevano, come detto, a una media di circa 3,2 posti per 1.000 abitanti, sesto dato più basso dell’Ue, che aveva una media di 5 posti letto disponibili per 1.000 abitanti. Al primo posto c’erano Germania (8 per 1.000 abitanti), Bulgaria (7,5 per 1.000) e Austria (7,4 per 1.000). Agli ultimi Svezia (2,2 per 1.000), Regno Unito (2,5 per 1.000) e Danimarca (2,6 per 1.000).
E per la terapia intensiva?
I dati Eurostat non ci permettono di fare un confronto per quanto riguarda le statistiche specifiche sulla terapia intensiva, ma solo sui posti letto destinati, per esempio, alla cura dei casi acuti (cioè tutti i casi esclusi quelli riabilitativi, di lunga degenza e i neonati vivi). Anche in questo caso l’Italia, con 2,6 posti letto ogni 1.000 abitanti è sotto la media Ue (3,7 ogni 1.000 abitanti), con il quinto dato più basso dell’Unione. Qui al primo posto c’erano la Bulgaria (6,2 per 1.000), la Germania (6 per 1.000) e la Lituania (5,5 per 1.000). Ovviamente in tutta questa analisi vengono elencati solo dei numeri e non si entra nel merito della qualità espressa poi al letto del malato nei diversi servizi sanitari, in alcuni casi qualità molto legata al censo socio-economico del paziente.
Come siamo messi, sempre e solo a livello di numeri, rispetto agli altri Paesi dell’Ocse?
Per quanto riguarda un confronto con il resto del mondo, i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), che raccoglie le statistiche per oltre 40 Paesi, ci dicono che nel 2017 al primo posto della classifica sui posti letto disponibili negli ospedali c’era il Giappone, con 13,1 posti ogni 1.000 abitanti, seguito dalla Corea del Sud (12,3), dalla Russia (8,1) e dalla Germania (8,0). L’Italia (con 3,2 ogni 1.000 abitanti) superava Paesi come Spagna (3,0), Stati Uniti (2,8), Regno Unito (2,5) e Canada (2,5).
E per i posti di terapia intensiva?
Anche in questo caso non vi sono dati per le terapie intensive, ma quelli per la cura dei casi in acuto, visti prima anche con Eurostat. Qui ai primi due posti nel 2017 c’erano sempre Giappone (7,8 posti ogni 1.000 abitanti) e Corea del Sud (7,1), seguiti dalla Germania (6,0). L’Italia, con 2,6 posti ogni 1.000 abitanti, superava Stati Uniti (2,4), Regno Unito (2,1) e Canada (1,9). Un’altra statistica pubblicata dall’Ocse, utile per un confronto internazionale, è l’indice di occupazione dei posti letto in ospedale per i casi acuti, che rileva qual è il rapporto percentuale tra le giornate effettivamente utilizzate dai pazienti ricoverati e le giornate teoricamente disponibili in base alla portata del servizio sanitario. Nel 2017 l’Italia aveva un indice di occupazione per i casi acuti del 78,9 per cento, contro una media Ocse del 75,2 per cento.
Perché l’emergenza Covid-19 sta alzando il velo sui problemi della nostra organizzazione sanitaria?
Perché, anche se la maggior parte dei contagiati mostra sintomi lievi e spesso guarisce a casa, importante è sempre garantire l’isolamento e la quarantena che deve essere di un totale di 14 giorni se non si presentano sintomi e di altri 14 giorni, se compaiono i sintomi, da quando non vi sono più sintomi, una certa percentuale di persone contagiate necessita di un’assistenza continuata in terapia intensiva. Vediamo i dati reali al 4 marzo 2020, quando appunto, si è manifestata l’urgenza italiana di adeguare le terapie intensive. Ricoverati in terapia intensiva erano quel giorno circa il 13,3 per cento (276 persone) dei 2.076 casi in quel momento positivi al nuovo coronavirus. Una percentuale molto più alta, per esempio, di quella collegata alle comuni influenze stagionali. Poiché un aumento dei ricoveri in terapia intensiva avrebbe messo a dura prova i nostri ospedali, il 4 marzo il governo non poteva non decidere di potenziarne le disponibilità urgentemente.
E qualcuno ha rimpianto i tagli alla Sanità effettuati con logiche a volte solo politiche e non dettate da interessi comuni, di efficienza e qualità. Perché eliminando determinati sprechi e determinate sclerotizzazioni non solo si sarebbero ottenuti importanti risparmi ma anche importanti incrementi in qualità ed efficienza. Purtroppo, i tagli sono stati tagli alla lettera. Spesso miopi. In alcuni casi si è buttato “il bambino con l’acqua sporca”, confondendo, nella logica dei tagli, gli sprechi con ciò che non solo serviva ma che addirittura sarebbe stato utile aumentare. Compreso il numero di medici e infermieri: siamo passati da un grave eccesso ad una scandalosa carenza.