Al Fatebenefrateeli di Milano si curano adolescenti con disturbi psichici anche senza farmaci.

 

 

 

Il suicidio è la seconda causa di morte dei ragazzi. Ma si cura. Quasi sempre si guarisce. Serve molta attenzione nei genitori e negli amici, chiamati a riconoscere i sintomi e a segnalare il caso alla Sanità pubblica. Serve anche l’impegno del paziente, che deve seguire un percorso di circa due anni per liberarsi dai propri “fantasmi”. Ce lo racconta Paolo Cozzaglio, primario dell’area psichiatrica del Centro S.Ambrogio Fatebenefratelli di Cernusco sul Naviglio, alle porte di Milano, dove, nella CRA San Riccardo e nella CRA Olallo Valdes, vengono curati giovani affetti da disturbi della personalità e del comportamento alimentare che possono sfociare in istinti autolesionisti e suicidari.

La cura di queste patologie, innanzi tutto, non è basata, come si crede, solo sui farmaci: «Il trattamento principe non è farmacologico ma psicoterapico e riabilitativo – spiega il primario -; con la psicoterapia indaghiamo nella persona quale siano la motivazione e il senso del comportamento patologico e poi inseriamo il soggetto in gruppi di trattamento in cui impara a riconoscere e gestire le emozioni. In alcuni casi, esistono anche gruppi di autoaiuto: sono i pazienti stessi a condividere e gestire le esperienze emotive tra loro, ovviamente venendo seguiti da specialisti»

L’autolesionismo si collega alla formazione dell’identità personale e per questo appare in fase adolescenziale: «tipicamente, nei disturbi di personalità e dell’alimentazione emergono pensieri negativi sulla propria identità e lo riscontriamo in entrambi i tipi di disturbo. In situazioni di fragilità, è la percezione interna delle proprie emozioni a presentarsi caotica – il soggetto non riesce a riconoscere i propri stati emotivi e quelli altrui – e i gesti autolesionisti “servono” a colmare il vuoto creato da questa difficoltà». Il malato si taglia, effettua sul proprio corpo dei tagli ripetuti ma superficiali, o si produce delle contusioni sbattendo il corpo contro il muro: «Lo fa per provare dolore perchè il dolore rimette in contatto la propria identità con il corpo e fa sentire di nuovo qualcosa alla persona che non percepisce emozioni e si sente “perso”. Lo scopo dell’autoslesionismo è tornare a percepirsi» spiega Cozzaglio.

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