Ecco come funzionano i test per verificare l’imminità al virus.
La scelta del test sierologico per il campionamento della popolazione avverrà entro il 29 aprile, in prossimità dell’inizio della fase 2. I dati raccolti poi convoglieranno ai sistemi del ministero della Salute passando per le strutture regionali. Il bando di gara prevede una prima richiesta di 150 mila test, cui potrebbero seguirne altrettanti con una seconda richiesta. Fase 2 sì, ma che sia in piena sicurezza dicono l’Oms, l’Europa e anche i vari governi.
Qual è il piano per dare avvio alla fase 2 nella maggiore sicurezza possibile?
Campionamento con test sierologici, patente di immunità e tracciabilità. In pratica come ha fatto la Corea del Sud.
Il primo punto, dopo la scelta del test e tenendo conto dei problemi organizzativi come si intende applicarlo?
Il piano illustrato dal commissario straordinario per l’emergenza Domenico Arcuri prevede un primo campione di 150 mila persone suddiviso in 6 fasce di età. Da sottoporre a test sierologici, obbligatori per la patente di immunità. Se funziona, i test si allargano e la patente di immunità sarà il cardine della fase 2. Anche se poi resta un’incognita, più di un’incognita: che cosa accadrà ai non immuni, che dovrebbero essere la maggioranza visto che l’immunità di gregge si ha quando a contatto con il virus è entrato il 60% della popolazione? E poi ci si muoverà a “targhe alterne”, positivi e negativi? O con l’app che avverte: “attenzione sei vicino a positivi, spostati”. Il rischio di discriminazioni è forte, in Corea del Sud funziona ma in Italia? Il Governo comunque ha dato il via libera al commissario Arcuri di avviare la procedura pubblica per l’acquisto dei test. L’idea iniziale è quella di un primo campione di 150 mila persone suddivise per profilo lavorativo, genere e 6 fasce di età. Il numero dovrebbe aumentare nelle settimane successive in caso di conferma di immunità.
E dopo i test, la patente di immunità per poter lavorare?
La patente di immunità è la soluzione scelta per far ripartire a pieno ritmo le grandi aziende. Prima di iniziare tutti i controlli, però, il comitato scientifico vuole capire se realmente dopo aver contratto l’infezione si è immuni. E questo è ancora dubbio. Dubbia è anche la velocità di mutazione del virus, molto alta, ma va capito se innocua o tale da far saltare l’immunità acquisita. Le certezze possono arrivare solamente da questi test e per questo motivo presto 150mila persone dovrebbero essere sottoposte ai controlli suddivisi per fasce di professione, di genere e di età.
Terzo passaggio la tracciabilità. Come si attuerà?
Arcuri spiega: “La app per il tracciamento sarà a titolo gratuito, e l’installazione sarà solo volontaria. Nessuno sarà obbligato a installarla, ma ovviamente ci aspettiamo che un numero molto alto di cittadini collabori. Gli esperti che hanno contribuito a supportare questo processo ci dicono che almeno il 75% della popolazione dovrebbe installarla”. Se ciò non accadrà, forse si dovrà pensare a un obbligo. E la privacy? “La app – aggiunge Arcuri – garantirà completamente l’anonimato, in ossequio alle normative nazionali e comunitarie, non ci sarà nessuna finalità diversa da quelle per le quali è stata progettata. Userà bluetooth e non la geolocalizzazione”. Inutile dire che quella messa in atto in Cina non garantisce l’anonimato.
Ma tutto il sistema avrà una sua efficacia se si pianifica bene che cosa studiare sulla popolazione con i test, e con quali test?
Tanti sul tappeto, ma sarebbe fondamentale che sia a livello nazionale sia europeo se ne usasse uno solo, per avere conformità nei risultati.
Comunque, che cosa va “misurato” per avere un quadro scientifico, e non di opportunità politica sull’onda emotiva dell’opinione pubblica stanca di stare bloccata e angosciata dalla crisi economica che è già in atto, e che non è solo alle porte?
“Vanno misurate le IgM, vedere quante persone le sviluppano insieme alle IgG che danno l’immunità. E andare a rivedere dopo due mesi per verificare se l’immunità persiste. Di questo virus dobbiamo scoprire ancora molto, di conseguenza questa campionatura servirà per avviare la fase 2 ma anche per dare risposte scientifiche che serviranno in futuro”, dice la ricercatrice del CNR Stefania Ruju. “Poi verificare se il test sierologico è venoso o capillare, al momento per quanto riguarda l’esperienza cinese sono più attendibili quelli venosi, risultati attendibili per il 94% nel rilevare le IgM e per il 98% riguardo le IgG. E attenzione vanno fatti nel periodo giusto. Nella finestra temporale giusta, seguendo anche i sintomi che sono fondamentali. A proposito, le ultime informazioni che arrivano dagli studi cinesi, ci dicono che in un 20% dei casi i sintomi riguardavano rush cutanei e ponfi. Né febbre, né tosse. Gli studi vanno ripetuti nel tempo per dare valore ai patentini di immunità, che all’inizio non ne avranno molto dati i misteri legati a questo virus”, dice ancora la Ruju.
Che cosa fare allora per sapere se esiste un’immunità naturale o comunque un’infezione senza sintomi (e questo è importante per sapere se un asintomatico può infettare altri)?
“Fondamentale è fare il tampone faringeo insieme al test sierologico, o a un paio di giorni di distanza uno dall’altro. Vedere la risposta del sistema immunitario con la tipizzazione linfocitaria (cioè vedere quali cellule di difesa si attivano e di quale tipo, informazioni fondamentali per dare risposte alle ipotesi). Quindi, test sierologici, tipizzazione delle immunoglobuline IgG e IgM per distinguere se è un contagiato iniziale e se è un asintomatico. Associato alla misurazione delle IgM, il tampone faringeo”, risponde la Ruju. Perché sottolinea faringeo? “Perché si stanno facendo tamponi diversi a livello nazionale, alcuni nasali altri faringei. Ma il virus replicante a livello nasale potrebbe non essere trovato e quindi dare un risultato negativo, nella faringe invece c’è sempre. Oggi sappiamo con certezza che il virus replicante non c’è nel sangue e nelle urine, mentre nelle feci si può trovare Rna del virus ma non il virus replicante. Nel naso, Rna ma rare tracce del virus replicante, quindi il tampone può risultare negativo. Soltanto il tampone faringeo è perciò attendibile”.
E il patentino d’immunità?
All’inizio ha un valore scientificamente relativo, visto che non si sa se l’immunità persiste e per quanto tempo. Però piace all’opinione pubblica e c’è già chi sta bluffando sui sintomi per poi essere sottoposto ai test e avere il patentino. Non sapendo che il tutto verrà fatto secondo uno schema a scaglioni prestabilito.
Quando vediamo le immagini che arrivano dalla Corea del Sud, vediamo medici che si muovono sul territorio attrezzatissimi e con il supporto di ogni tecnologia. Quale certezza c’è in Italia che in tutte le Asl ci sia lo stesso livello?
“Dobbiamo arrivarci”, spiega all’AGI, Gianni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità. I timori sono però forti e giustificati. Negli ultimi anni, infatti, il sistema delle aziende sanitarie italiane, o comunque si chiamino ora nelle diverse Regioni e Province Autonome, è profondamente cambiato e con esso anche l’organizzazione dei Dipartimenti di Prevenzione, che sono gli uffici chiamati a svolgere compiti di primaria importanza proprio sul fronte della lotta al coronavirus.
Quante sono le Asl in Italia?
Dal 2014 ad oggi il numero si è ridotto del 40 per cento e se nel 2000 c’erano 197 Asl in tutta Italia, oggi sono solo 99. Se nel 2005 ogni singola Asl in media doveva pensare alla salute di 321.601 abitanti, oggi lo stesso ufficio deve controllare lo stato di salute di un numero quasi doppio di cittadini. Sono numeri che destano preoccupazione soprattutto in vista del carico di lavoro che si riverserà sui Dipartimenti di Prevenzione nella prospettiva della prossima uscita dalla quarantena. Peraltro, quasi tutti in sofferenza per gli organici. Perché, diciamolo, di prevenzione si parla tanto ma nei fatti non attira molto l’attenzione della politica non offrendo risultati immediati e tangibili ai fini anche di un voto.
Che cosa dovrebbero fare i Dipartimenti di Prevenzione?
Spetterà a loro, prima di tutto, mantenere in piena efficienza il sistema sanitario mettendo al riparo ospedali e centri di cura (ambulatori, case di riposo, medici di famiglia) che sono i luoghi più esposti al virus. Poi dovranno fare in modo e provvedere che tutte le conoscenze acquisite sulle modalità di trasmissione del virus siano valutate, divulgate e tradotte in provvedimenti e misure (che ancora non sono state scritte e nemmeno definite) da tagliare su misura delle singole attività che riapriranno, con le loro specificità, e che dovranno garantire nuovi standard di sicurezza per i lavoratori e anche per i clienti.
Urge un potenziamento che appare cruciale, o no?
Soprattutto se si vuole dare retta ai criteri che, in questi giorni, ha diffuso l’Organizzazione mondiale della salute (Oms) e che vedono proprio in queste attività la chiave di un pur timido ritorno alla normalità. Se però nella prima fase emergenziale l’aumento dei letti di terapia intensiva era stato sostenuto e finanziato dal governo centrale e anche dalle donazioni di molti privati, stavolta per il potenziamento di queste strutture così cruciali, non è ancora stato destinato nessun investimento diretto.
Che cosa va fatto il prima possibile?
“Molti parlano e citano il caso della Corea del Sud – risponde Rezza – senza citare quale è stata la loro reale arma vincente: un servizio sanitario organizzatissimo sul territorio ed estremamente efficiente che è stato in grado di attuare un contenimento capillare (quartiere per quartiere, arrivando a isolare anche un solo condomino o isolato) e a effettuare una campagna di tamponi a tappeto che ora dovremo organizzare anche in Italia”.